garbatella

C’è un personaggio principale, nel libro La ladra di piante di Daniela Amenta (Baldini e Castoldi, 16 euro), ed è Roma. È la Roma delle periferie, quelle che dalla Garbatella guardano il mare, un mare lontano che si può solo immaginare. È una Roma molto materica, fatta di odori, suoni, colori, quella che traspira dalle pagine del libro. Si capisce che Amenta conosce quelle strade per averle vissute, e le restituisce con una particolare vivezza. Ma si capisce anche che è un’affettività complessa, quella che la lega a Roma: «Una città senza una lingua e con una dialetto che è una parodia ibrida. Che famo, che dimo, che se magnamo. Detesto Roma per quanto è cambiata, perchè ha smesso di essere sorniona e in fondo generosa e si è scoperta un cuore nero, cattivo, respingente». Ma Roma non è che il cuore nero di un’epoca: «Cancellata un’Italia, quella delle buone maniere e delle pastarelle della domenica, era rimasta solo l’altra: nera, livida, avida e arrogante».

Così questo libro, che tecnicamente sarebbe un giallo, ci racconta un ambiente, una grande storia collettiva che trascende le singole, piccole storie raccontate. Del resto è anomalo pure come giallo, questo: l’omicidio arriva ben oltre la metà del libro, e si scioglie poco prima della fine. Quella morte, allora, è un incidente di percorso, una pietra d’inciampo, che ha la funzione di allacciare storie, di intrecciare solitudini, di consegnare parole nuove a chi non ne riusciva più a dire. Le solitudini di tre persone di generazioni diverse, che insieme raccontano la solitudine quasi-metropolitana di una città, e anche di una nazione intera: una psicologa precaria che lavora in un laboratorio di cavie, un cronista di nera ex critico musicale, e un vecchio giornalista informatore e gattaro di quartiere.

Pagine molto vive sono dedicate all’amore che la protagonista, Anna, ha per le piante: il suo riempirsi la terrazza delle piante più diverse, il suo prendersene una cura totalizzante, è il modo per riscattare quella solitudine, quel mutismo sociale di cui nemmeno sa di essere vittima («anche se fossi senza un calendario, saprei sempre in che mese mi trovo. Mi basterebbe odorare l’aria. Le piante hanno un ciclo, per questo le rispetto. Noi non più. Noi ci inventiamo altre vite per sopportare le nostre»). E poi c’è la musica (del resto l’autrice è stata a lungo giornalista musicale, e ha nel curriculum incontri e interviste con le più grandi rockstar): e allora i Clash, Lou Reed, Bill Evans, Chet Baker, riempiono di senso le vite di questi personaggi, e formano ponti che li legano, che li mettono in comunicazione, che gli restituiscono parole. Fiori che sono note, note che sono fiori: le calle sono delle «Patti Smith in camicia bianca», la gardenia «si inerpica e sfida la legge di gravità come le canzoni di Nick Drake», l’ibiscus è «di sangue e carne come il contrabbasso di Mingus». Ancora una volta, sinestesie, sensazioni incrociate a tentare di mappare una città e un mondo: «All’incrocio con Garbatella l’odore di mignotte, di pastarelle, di zuccheri. L’odore dei trigliceridi, d’amore, di una gallina che razzola, d’aia, di viscere, di fango, e tango, e via che balliamo ora che piove. Daccapo, piove. E m’arriva l’odore del ghiaccio di tufo dell’Ardeatina, un melenso e brivido, gelo d’ossa, sarà la storia, il massacro delle Fosse, sarà ma arriva ed è pena, ed è nostalgia».