Si chiuderà l’8 agosto, come da agenda fissata dal velocista di palazzo Chigi. Ma solo perché fare prima non starebbe bene. Renderebbe troppo evidente il fatto che qualche forzatura, per snellire così i tempi, deve per forza esserci stata. Però, volendo, il governo potrebbe incamerare la riforma costituzionale in pochi giorni, ben prima la fatidica data di cui sopra.
Tutto merito del coniglio, anzi del canguro, uscito fuori dal cilindro di Grasso ieri mattina, nella riunione della Giunta del regolamento del Senato. Il presidente del Senato al «canguro» aveva già fatto ricorso la sera precedente, falcidiando circa 1400 emendamenti in un colpo solo. Ora si tratta di legittimare la mossa, permettendo così di ripeterla a volontà. Il regolamento del Senato non prevede la micidiale sforbiciata. Poco male, ci appelleremo a quello della Camera che invece all’art.85 consente al presidente dell’assemblea di cangurare a piacimento. Oddio, mica tanto a piacimento. In effetti, subito dopo, l’art. 85 bis chiarisce al di là di ogni possibile dubbio che le succitate facoltà, «non si applicano nella discussione dei progetti di legge costituzionale». Poco male. Vuol dire che prenderemo l’art.85 e faremo finta di non vedere quello successivo. Tanto più che c’è anche qualche precedente. Aveva saltato come il marsupiale australiano anche Pera ai tempi della riforma Berlusconi. Vero, però lui lo faceva cassando emendamenti a decine, mica a migliaia. Ininfluente. Dieci o mille per noi pari sono.
Scusi presidente, ma anche in questo nuovo e inedito regime, resta che il presidente, prima di mettere ai voti un emendamento, dovrebbe chiarire quali e quante altre proposte di modifica verrebbero cassate a ruota in caso di bocciatura, così, tanto per consentire al proponente di ritirare l’emendamento evitando il massacro. Lei ieri, invece, prima di depennarne 1400 in un colpo solo, mica aveva avvertito! Oops, che distratto. Avete ragione, non capiterà più. Ma ormai chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato.
«Si è cambiato surrettiziamente il regolamento del Senato», denuncia la capogruppo di Sel Loredana De Petris. «Solo che per cambiarlo ci vorrebbe una maggioranza di due terzi, invece camuffando la modifica da semplice ‘interpretazione’ è bastata la maggioranza nella Giunta per il regolamento», prosegue. La stessa cosa denunceranno, alla ripresa dei lavori d’aula, senatori di ogni gruppo, Fi inclusa. Grasso li ascolta ineffabile, li fa sfogare uno dopo l’altro. Poi riprende come se nulla fosse stato detto. E’ la Terza repubblica. Evviva.
A questo punto, la sola minaccia per la riforma è rappresentata dai voti segreti. Lo spacchettamento li depotenzia, ma la Lega ne ha riformulati un paio in modo da rendere lo spacchettamento praticamente impossibile. E i numeri non sono rassicuranti. Ieri, dopo la bocciatura della proposta di abolizione secca del Senato, l’emendamento più importante, quello dell’ezzurro Minzolini a favore del Senato elettivo, ha perso, a voto palese, con uno scarto di soli 57 voti. Tre dei sedici senatori dissidenti del Pd, a fronte delle martellanti pressioni di questi giorni, non se la sono sentita di andare fino in fondo e hanno votato come Renzi comanda. Resta comunque un margine troppo esiguo per poter affrontare in tutta tranquillità il voto segreto. Infatti già ieri, in Giunta, il capogruppo Pd Zanda ha chiesto a Grasso di limitare ancor più rigorosamente la gentile concessione. Non l’ha spuntata ma ci riproverà al più presto. Nel clima plumbeo e minaccioso che grava in questi giorni su palazzo Madama non è detto che non ci riesca. Un risultato importante, quello di ridurre un cencio i dissidenti del Pd, la campagna lo ha comunque raggiunto. Ripetono che bisognava ritirare gli emendamenti. Propongono nuove e improbabili mediazioni che vengono cassate senza neppure pensarci sopra dal governo.
La linea di Renzi in effetti è chiara, e non comprende spiragli di sorta. «Non arretro di un centimetro», dichiara a fine mattinata, senza nemmeno camuffare l’arroganza. Tanto ci penseranno i giornali a rovesciare la verità assicurando che sono state le opposizioni a non cogliere le sue in realtà inesistenti aperture. A sera, il condottiero twitta vittoria: «Loro hanno finito il tempo, noi non abbiamo finito la pazienza». Nel frattempo aveva fatto sapere che sì, l’Italicum al Senato cambierà. Fi gli risponde a muso duro: ogni modifica va concordata col cavaliere.
Ma non c’è mica bisogno di ricordarlo a Matteo Renzi. Lo sa benissimo da solo che il patto del Nazareno è la sua principale garanzia e ha già deciso che le modifiche alla legge elettorale non saranno tali da far imbufalire il socio. Ci sarà l’innalzamento della soglia per il premio di maggioranza, dal 37 al 40%, quello sì. Ma nulla di più. Niente preferenze e soprattutto nessun ritocco alle soglie di sbarramento: 4,5% per i partiti in coalizione, 8% per chi va da solo, 12% per le coalizioni. L’Ncd si assoggetterà, e se non lo farà si potrà trattare ma solo (e molto eventualmente) sulle preferenze. Non sullo sbarramento. Così Renzi potrà andare di corsa e sarà in tempo, se del caso, per votare la primavera prossima. Perché, come confessava in privato un autorevolissimo ministro qualche giorno fa: «Di fronte alla situazione economica che si prospetta, la possibilità di buttarla in politica c’è». Eccome se c’è…