«Se abbiamo ucciso i comunisti è perché l’America ci ha insegnato a odiarli». Indonesia 1965, Sukarto, primo presidente dopo la dichiarazione di indipendenza del paese dal colonialismo olandese, viene rovesciato dal colpo di stato militare guidato dal generale Suharno. Quell’area dell’Asia era troppo ricca e troppo importante per lasciarla a chi voleva ripartire le risorse in modo più equo, impedendo a pochi di saccheggiarla in accordo con le multinazionali del tempo, come la Good Year.

Il Partito comunista indonesiano, che allora era uno dei più forti al mondo viene messo subito fuori legge e accusato di avere ucciso sei generali, cosa che scatena il massacro: un milione di persone, contadini, intellettuali, sindacalisti, soci delle cooperative della terra, ma anche i cinesi, componente etnica sgradita nella società indonesiana vengono uccise in meno di un anno dall’esercito e dai paramilitari che hanno mano libera a ogni atrocità.

Di questo genocidio dimenticato dalle Storie ufficiali, anche perché i governi e i media occidentali ne furono complici, Stati uniti in testa, che applaudirono gli omicidi pubblicamente – Joshua Oppenheimer, regista di Austin, Texas, che vive e lavora in Danimarca, aveva fatto il cuore del suo lavoro precedente, The Act of Killing. Sulla scelta del punto di vista, e della posizione del cineasta espressa in quel film, si possono avere dei dubbi, gli si può forse «rimproverare» di non avere controllato i suoi «personaggi»: lì i protagonisti sono i massacratori, uno in particolare, capo degli squadroni della morte, Anwar Congo, che davanti alla macchina da presa mette in scena i suoi omicidi come se fosse l’eroe di un gangster movie. Le «vittime» invece rimangono fuori dall’inquadratura, è una scelta precisa, non c’è un campo/controcampo come accade nei film del regista cambogiano Rithy Pahn, il quale però a differenza di Oppenheimer, è stato «vittima» lui stesso dello sterminio di cambogiani compiuto dal regime di Pol Pot.

The Act of Killing però in Indonesia ha scoperto il tabù del genocidio costringendo a guardarlo in faccia, e a parlarne, a ricordare pubblicamente. L’Indonesia infatti a differenza di altri paesi, come ad esempio il Rwanda, o l’Argentina pensando alla dittatura militare, non ha mai aperto una discussione sui crimini, e soprattutto non è mai stato formalizzato a livello istituzionale un «riconoscimento» delle responsabilità, perché al potere ci sono sempre, seppure sotto altre forme, coloro che li hanno compiuti. Questo rende la posizione delle vittime ancora più dura. Non solo: i familiari dei comunisti sono stati emarginati, privati dei loro diritti, e ancora oggi a scuola ai bambini si insegna che i comunisti erano mostri pericolosi, e chi ne aveva uno in famiglia deve vergognarsi.

Ecco allora che The Look of Silence, il nuovo film di Oppenheimer (prodotto ancora da Errol Morris e Werner Herzog, splendida scelta di concorso), è ancora più destabilizzante. Perché stavolta chi parla, e «provoca» con la pacatezza composta delle sue domande è una «vittima», Adi, il cui fratello è stato ucciso dai paramilitari del villaggio in modo orrendo – lo hanno sventrato e poi gli hanno tagliato il pene – e poi gettato nello Snake River, con decine di migliaia di altre persone, al punto che come dicono i due assassini, per tanto tempo nessuno mangiò più pesce né molluschi.

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Adi è un oculista, va in giro a controllare con i suoi apparecchi la vista della gente, e intanto pone domande, cercando di dare uno sguardo a quel silenzio che avvolge i fatti, alla paura di chi è sopravvissuto o dei parenti di chi è morto che temono di ripiombare in quell’orrore, e le parole di un politico locale, al potere da oltre quarant’anni, non ne sono che la conferma. Come fa parlare con quelli a cui ha ucciso i familiari chiede Adi, E l’uomo si arrabbia, accusa lui e il regista di voler riaprire una ferita, di sollevare delle proteste, rischiando così che quanto è successo nel 1965 accada di nuovo.

Oppenheimer utilizza una forma visuale spogliata dalle incursioni surreali del precedente, vicino al suo personaggio, Adi, di cui cattura frammenti di vita quotidiana coi figlioletti, i loro giochi, gli scherzi della più piccola, il disorientamento del ragazzino quando ascolta le lezioni a scuola. La tensione con la moglie, spaventata dagli incontri con gli assassini, e soprattutto la relazione tra Adi e la madre, che con chi ha ammazzato il figlio ha smesso allora di parlare, vive isolata, conosce uno a uno i carnefici ma tutto è rimasto sotto silenzio. Persino suo fratello era una guardia nel carcere dove il ragazzo, Ramli, era stato rinchiuso prima di essere ammazzato, lei dice che non lo sapeva, poi il volto si chiude. Lo zio invece alle domande di Adi si irrigidisce: obbedivo agli ordini risponde, cosa potevo fare?

Adi però non è un super eroe, non sbraita, non grida, non accusa: pone delle questioni sostanziali che riguardano la vita comune, perciò il Paese, e quella necessità di affrontare il passato per superarlo, che non vuol dire dimenticare ma comprendere insieme, cosa che spaventa le classi di potere ma anche chi, come i figli dei massacratori, non sapeva o ha fatto finta di nulla e all’improvviso è costretto a questo confronto

Man mano che Adi procede coi suoi incontri, e con le sue domande, è come se anche il regista interrogasse le sue stesse immagini. Adi guarda i materiali girati da Oppenheimer anni prima, in cui gli assassini raccontano come hanno ammazzato il fratello, Ramli, che è anche la sola vittima «ufficiale», perché è riuscito a fuggire ferito. Tornando sugli stessi luoghi, anche la posizione di Oppenheimer cambia, non è più colui che ascolta i racconti degli orrori, e li filma, ma è qualcuno che li mostra perché ne nasca una consapevolezza collettiva. C’è un passaggio molto bello, in cui Adi va a casa di uno degli assassini del fratello, e chiede perché, come è stato possibile, come riescono a fare finta di nulla.

L’uomo è morto, la moglie è vecchia, i figli prima sono imbarazzati, poi diventano aggressivi: Joshua ti abbiamo accolto ma ora non sei più il benvenuto a casa nostra dicono quando Oppenheimer mostra le immagini in cui il padre si vanta, contraddicendo i dinieghi, quel loro non sappiamo nulla. «Stiamo parlando di politica» chiedono increduli, perché quei morti nella percezione collettiva continuano a essere giustificati come necessari per salvare l’Indonesia. Possono dirlo però al fratello di uno di loro?

Non è il semplice contrappunto tra un film dei «carnefici» (The Act of Killing) e il film delle «vittime» anche perché, e questa è la sua grandezza, The look of Silence non è un film sulle vittime. È piuttosto una sfida al silenzio che unisce Adi e Oppenheimer – entrambi lavorano con gli occhi – nel rendere visibile l’invisibile. Non è questa anche la potenza del cinema?