Dei margini che irrompono, come direbbe lo scrittore svizzero Ludwig Hohl: una indicazione per capire da dove possa arrivare certa forza e come questa si presenti. Viene in mente proprio questa formula – titolo di uno dei suoi lavori – per sintetizzare quanto si è potuto vedere in due bei programmi dell’ultima edizione della Mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro.

Partiamo da “Verifiche incerte. Per una (contro)storia del cinema”, a cura di Federico Rossin, programma che si è articolato in due giorni come «un percorso d’avanguardia nelle pratiche critiche di riuso filmico per attraversare, analizzare e de-costruire le opere e gli stili dei primi maestri del cinema – Muybridge, i fratelli Lumière, Méliès, Griffith, Keaton, Stroheim.» Una ripensamento delle possibilità del linguaggio filmico in relazione ai suoi inizi, dove si è avuto modo di vedere lavori di maestri del cinema sperimentale come – per esempio – Ken Jacobs, con Keaton’s Cops (1991). Però, se si dovesse segnalare un titolo fra quelli proposti, verrebbe da dire Filming Muybridge di Jean-Louis Gonnet (1981), film di 25 minuti straordinario per come riesce a fare della fotografia di Muybridge – espressione di un pre-cinema inteso come osservazione analitica del movimento – un campo aperto a infinite possibilità narrative e persino romanzesche. E mostra, in fondo, una operazione dove le marginalità di partenza, storiche e pratiche – pre-cinema, cinema sperimentale – si danno come forze convergenti capaci di rivitalizzare la nostra percezione.

Il secondo programma da menzionare è quello a cura di Karianne Fiorini e Gianmarco Torri, dedicato ai film d’artista, personali e artigianali in Super8. Si è trattato di un programma più vasto di quello di Rossin e di impostazione monografica, dal momento che ogni giorno si sono presentati lavori di filmmakers diversi. Ora, fra le tante cose, grazie a Torri e Fiorini si è avuto modo di vedere alcuni splendidi film del francese Philippe Cote (in rete, www.philippecote.wordpress.com): il più recente Le chemin de glaces (2013); Des nuages aux fêlures de la terre (2007) e soprattutto – parere personale di chi, qui, scrive – L’angle du monde (2006). Nel presentarsi, Cote non fa mistero di essere debitore del lavoro del grande filmmaker statunitense, Peter Hutton. Qualcosa di assolutamente evidente eppure, guardando L’angle du monde, ci si imbatte in un modo di vedere forse meno incline alla osservazione e però più aperto alla poesia del momento. Film di viaggio, film di impressioni paesaggistiche dalle isole bretoni di Ouessant, Molène e Sein, l’esperienza che regala Cote con questo film è in grado di far intuire, forse, come da un certo angolo di terre e di mare, benché isolato, possa sprigionarsi una forza di una tale bellezza a cui difficilmente si può resistere. Finis terrae come inizio e promessa.

Anche qui, margini che irrompono.