Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è in piedi, da solo, due passi indietro rispetto alle trentacinque bare allineate davanti all’altare tirato su dentro alla palestra di Monticelli, ad Ascoli Piceno. Davanti i parenti delle vittime del terremoto di Arquata e Pescara del Tronto sembrano non farci troppo caso, piegati dal dolore o accasciati sulle sedie.

Ci sono anche i superstiti, alcuni bendati da capo a piedi, appena usciti dall’ospedale, altri sulla sedia a rotelle, altri ancora con pochi graffi, tutti con la faccia stravolta di chi ha visto la morte passargli a fianco. Il silenzio è quasi assoluto, non c’è nemmeno il classico vociare di fondo delle tante persone accorse da tutte le Marche.

Tanti sono rimasti fuori, dove era stato allestito un maxischermo, centinaia di persone immobili, solenni nel dare il proprio ultimo saluto a chi non ce l’ha fatta a scampare alla furia del terremoto di mercoledì notte. Si vedono le divise azzurre e i pantaloni corti dei boy scout che distribuiscono fiori, delegazioni dei tifosi storicamente rivali di Ascoli, Ancona e Sambenedettese fianco a fianco, i vigili del fuoco, la protezione civile, le forze dell’ordine.

C’è anche una platea di donne e uomini dello stato: Mattarella, il presidente del consiglio Matteo Renzi, quelli delle due Camere Laura Boldrini e Pietro Grasso, i loro vice Luigi Di Maio e Simone Baldelli, i parlamentari marchigiani, i sindaci del Piceno, Arturo Scotto e Alfredo D’Attorre di Sinistra Italiana.

Nel giorno del cordoglio, quando in tutta Italia le bandiere sono state issate a mezz’asta, il caldo dell’ultimo scampolo d’estate è quasi insopportabile dentro la palestra, mentre fuori il sole picchia forte.

Qualcuno si sente male e viene accudito dai paramedici. L’asse centrale di Monticelli (grigio quartiere periferico di grattacieli e palazzoni che ospita quasi un terzo di tutta la popolazione ascolana) è invaso dalle automobili, i vigili urbani cercano di smistare il traffico alla bell’e meglio, mentre più ci si avvicina alla palestra più aumentano i controlli: la zona è stata bonificata nella notte tra venerdì e sabato, le misure di sicurezza, come sempre in questi casi, sono imponenti.

I familiari delle vittime stringono le mani ai vari politici accorsi per il funerale di stato, c’è chi piange, chi ascolta le parole di conforto sussurrate dal vicino e spera che le promesse («Non vi lasceremo soli») non rimangano tali per sempre.

All’inizio della messa il pubblico si scioglie in un lungo applauso, stremato, commosso, molto forte e incredibilmente vicino a un dramma che con il passare dei giorni nessuno riesce a razionalizzare.

Il vescovo di Ascoli Giovanni D’Ercole nella sua omelia cita Guareschi e la scena in cui don Camillo parla ai fedeli dopo un’alluvione. Il tema teologico del silenzio di dio è un’istantanea immortalata da tanti fotografi: un raggio di sole che entra dai finestroni in alto sfiora le bare e si posa sull’altare. «Perché ci ha fatto questo?», se lo chiede anche il vescovo. Si invoca il coraggio della fede, però nessuna risposta appare soddisfacente in questo momento.

A chi è riuscito ad avvicinarsi, Renzi ha rivolto un invito a «non mollare», poi ha promesso che tornerà «quando le telecamere saranno spente». Ecco, dopo i primi giorni di emergenza e l’ondata della solidarietà (tantissimi volontari, tonnellate di prodotti donati, oltre 6 milioni di euro raccolti via sms), la paura riguarda quello che verrà dopo.

Dopo questo funerale, dopo la prima sbornia mediatica in cui gli occhi di tutto il mondo si sono fermati a guardare il disastro tra le Marche e il Lazio, dopo le visite istituzionali, dopo il lutto.
Dopo. Quando l’attenzione calerà e il rischio è che tutto venga dimenticato. Ci sono paesi da ricostruire, vite da far ripartire, una normalità da riconquistare ad ogni costo.

Ancora Renzi ha detto che la ricostruzione avverrà negli stessi luoghi in cui tutto è crollato, «Diteci anche voi cosa fare, non possiamo decidere tutto a Roma». È questo il perno di quello che sarà il dibattito: la gente della montagna non vuole andare via, non vuole new town, non vuole spostarsi dai luoghi in cui ha vissuto. Vuole solo ricominciare e il tempo che non passa mai adesso è il nemico più grande.

Perché stanotte si tornerà a dormire nelle tendopoli e nelle macchine in una vita provvisoria a tempo indeterminabile, perché la battaglia per il futuro non è finita, ma è appena cominciata. Perché resistere non è una speranza, ma l’unica prospettiva concreta.