Non si tratta di vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto o, peggio, di provare un indicibile fastidio per quella che sarebbe la ripresa in corso, minimizzandone i risultati, ma di provare a inquadrare quelli che sono segnali in controtendenza con i perduranti segnali negativi. O meglio di registrare la crescita Usa, quella inedita italiana, i vari indici che misurano il buon umore degli operatori economici, insieme ad altri dati altrettanto significativi che vanno in direzione contraria.

Solo negli ultimi due mesi sono emersi diversi problemi interconnessi tra loro e che non vanno sottovalutati. Il primo aspetto macroscopico è il rallentamento o la crisi dei paesi emergenti. La Cina ha ridotto i suoi ritmi di crescita, le previsioni del centro statistico nazionale parlano di una crescita nel 2015 che potrebbe giungere al 6.5%, ma c’è chi fa previsioni su una crescita reale intorno al 4%. La Cina corre su un crinale fatto di bolle e debiti. Il suo rallentamento ha prodotto una riduzione della domanda globale di materie prime con ricadute in diversi paesi. Tra questi il Brasile è il più colpito, entrato in un vortice di recessione, declassamento del debito, politiche di austerità, molto simile a quelli di stampo europeo.

Nel frattempo nel Vecchio continente è esploso il caso Volkswagen, uno scandalo nel comparto che aveva fatto da traino dell’esile ripresa in Italia e persino in Germania. Non a caso le banche centrali di questi paesi stanno lanciando l’allarme sulle imprevedibili ripercussioni non solo per il settore auto, ma più in generale sulle aspettative di investitori e consumatori. La Bce ha tolto i titoli della casa di Wolfsburg dal paniere di quelli che rientrano nel programma di quantitative easing. Programma di cui è stato annunciato dalla Bce un possibile ampliamento con modalità da definire: allungamento temporale oppure aumento degli acquisti. In entrambi i casi c’è da considerare che il mese di agosto ha fatto registrare una prima battuta d’arresto, dato che non è stato raggiunto l’obiettivo dei 60 miliardi di acquisto di titoli, attestandosi invece poco sopra i 51. Nessuno drammatizza, ma la Bce ha già definito un allargamento del campo degli asset acquistabili, poiché il programma per ora resta troppo sbilanciato su titoli dei paesi principali.

Intanto il campione delle politiche monetarie espansive, il Giappone, registra in questi giorni un ritorno alla deflazione (l’indice dei prezzi scende a -0.1%). Dopo un secondo trimestre con una crescita negativa del Pil pari a -1.6%, rischia ora di piombare nuovamente in recessione. Complessivamente il quadro non è rassicurante, anche se non sembrano dietro l’angolo nuovi verticali disastri finanziari. L’eccessivo affidamento alle banche centrali incomincia a mostrare la corda, almeno dal punto di vista della stabilizzazione dei meccanismi di funzionamento del mercato, lasciando tutti gli attori orfani di potenziali interventi taumaturgici. Siamo piuttosto di fronte a una fase, non si sa per quanto lunga, fatta di croniche e destabilizzanti incertezze. Alcuni conservatori americani, e ormai non solo loro, la definiscono la «nuova normalità» a cui dovremmo abituarci. Il sistema d’altronde non reagisce, l’economia reale continua ad annaspare, sempre più assorbita nelle logiche finanziarie con rischio bolle e debiti. Questa instabilità sembra auto-alimentarsi, cominciando a rimbalzare da una latitudine all’altra con esiti imprevedibili. Dai tempi della controrivoluzione neoliberista in Occidente le dinamiche globali sono state pagate da lavoro e classi popolari. La crescita, almeno in parte, si era riversata sugli emergenti. Oggi anche loro sembrano navigare in mari meno sicuri e la loro ascesa forse deve fare i conti con una «nuova normalità» che ha iniziato a bussare alla porta.