A Baghdad è stato dichiarato lo stato di emergenza. L’assalto al parlamento dei sostenitori del leader religioso sciita Moqtada al-Sadr spinge il paese sul baratro di una crisi politica inevitabile. L’apatia dei partiti politici iracheni ha prima portato in piazza migliaia di persone, per settimane, e ora ha fatto esplodere la rabbia. A muovere sapientemente i fili sono al-Sadr e le sue Brigate della Pace, capaci in pochi mesi a vestire i panni simbolici dell’anti-corruzione.

Ieri pochi minuti dopo il discorso di al-Sadr nella città sciita di Najaf (la chiamata alla piazza seppure non abbia ordinato l’entrata in parlamento), in migliaia hanno distrutto il muro di cemento e fatto irruzione nella zona verde, il cuore politico di Baghdad, quattro chilometri quadrati in cui si concentrano gli uffici del governo, la sede del parlamento e le ambasciate straniere.

Al grido di «Vittoria per l’Iraq» hanno urlato ai ministri di andarsene, sono entrati in parlamento, sono saliti su sedie, poltrone e scranni, mentre fuori lanciavano pietre ai ministri che tentavano la fuga. Secondo agenzie locali alcuni deputati sarebbero rimasti feriti. «Questa è una nuova era nella storia dell’Iraq, ci hanno derubato negli ultimi tredici anni», i commenti raccolti tra i sostenitori sadristi. Così si è conclusa la manifestazione pacifica che si stava tenendo fuori dalla Zona Verde, iniziata dopo l’ennesimo stallo parlamentare sul voto di fiducia alla proposta di nuovo governo tecnico del premier al-Abadi. La lista di nuovi ministri era stata presentata dietro le pressioni dei sadristi e i sit-in pacifici nella capitale.

Buona parte dei partiti politici iracheni, da quelli sciiti a quelli sunniti fino alle 5 fazioni kurde rappresentate nel governo centrale, hanno risposto con l’ostruzionismo, chiaramente spaventati dalla probabile perdita di potere clientelare su cui fondano da oltre un decennio la propria sopravvivenza. Per settimane hanno evitato di votare la fiducia, mentre alcuni dei ministri tecnici scelti dal premier si sono rifiutati di accettare la nomina. All’inizio di questa settimana il parlamento aveva finalmente accettato il rimpasto di governo per poi ostacolarne la nomina ufficiale facendo sempre mancare il quorum necessario al voto di fiducia.

Immediate le reazioni alla rivolta sui social network e i media: mentre il governatorato di Baghdad dichiarava lo stato di emergenza, indiscrezioni e rumor si accavallavano senza trovare alcuna conferma: su Twitter il premier al-Abadi veniva dato in fuga dalla capitale, mentre qualche ora dopo, in tarda serata, sul proprio account scriveva che la «situazione a Baghdad è tornata sotto controllo», salvo poi chiedere ai manifestanti di protestare in modo pacifico. Poco dopo l’emittente Sharqiya Tv gli attribuiva la colpa di aver autorizzato i manifestanti ad entrare nella Zona Verde alla condizione di tenere una protesta pacifica.

Sarebbero ancora all’interno dell’area fortificata diplomatici occidentali e funzionari dell’Onu, non ancora evacuati. Intanto il commando generale dell’esercito chiudeva tutti gli accessi alla città per impedire l’ingresso di altri eventuali manifestanti sadristi (solo l’uscita da Baghdad è stata consentita) e annunciava di essere pronto ad usare la forza per fermare la rivolta.

Poche ore prima 23 persone perdevano la vita nell’esplosione di un’autobomba che ha colpito pellegrini sciiti alle porte della capitale, nel sito sacro di Kadhimiyah. In tarda serata sarebbe arrivata una rivendicazione da parte dell’Isis, attraverso un comunicato su internet, ma quei morti ricordano a tutti che la crisi politica, inevitabile in un paese vittima di reti clientelari tentacolari che hanno risucchiato miliardi di dollari destinati alla ricostruzione, non fa che indebolire ulteriormente le istituzioni di uno Stato disfunzionale che dovrebbe difendersi dall’avanzata del califfato.