Nuovi bisogni e diritti emergono in una società sempre più globalizzata e multietnica, anche lo sport rappresenta un diritto di cittadinanza emergente. In alcuni paesi europei le politiche del welfare includono la pratica sportiva come fattore capace di raggiungere ampi strati della popolazione, soprattutto fasce sociali più deboli. In Europa il rapporto tra il welfare e lo sport è il riflesso di politiche tese a riconoscere lo sport come diritto di cittadinanza, ma dipende dai modelli sportivi vigenti dai paesi scandinavi a quelli del sud dell’Europa fino ai paesi dell’Est ex comunisti. Da un’indagine condotta in Europa da sociologi dello sport si scopre che non sempre i paesi più ricchi sono i più sportivi. Il sindacato, dopo lo sciopero generale di ieri, può includere lo sport nelle politiche del welfare e rispondere ai nuovi bisogni che emergono dai migranti? Ne parliamo con Nicola Porro, che ha coordinato questa ricerca su base europea, già presidente dell’associazione europea dei sociologi dello sport e professore presso l’Università di Cassino e del Lazio meridionale.
Quali sono i modelli di welfare che includono lo sport nei paesi dell’Unione europea?
La ricerca da noi condotta ha comparato diversi dati all’interno di un quadro internazionale per capire i fattori che incidono sulla pratica sportiva dei cittadini, per l’Europa abbiamo cercato di capire perché c’è una distanza madornale tra i paesi nordeuropei e quelli del sud e dell’est post-comunisti. In Norvegia, Svezia e Danimarca esistono forti agenzie che promuovono lo sport di base sul territorio, c’è un modello che è esattamente opposto a quello italiano, poche medaglie olimpiche e tante politiche per la promozione dello sport per tutti. C’è un binomio solido tra risorse economiche distribuite alle associazioni sportive presenti sul territorio e politiche promosse dagli enti locali protese verso lo sport di base, che chiameremo sport di cittadinanza. Questo modello di welfare sportivo ha politiche socialdemocratiche. Il modello anglosassone, invece, è un mix tra il pubblico e il privato, lo Stato favorisce politiche di defiscalizzazione per le spese sportive, come dedurre dalle tasse le somme spese per la palestra. Inoltre, il British Sports Council promuove campagne sui corretti stili di vita, sui danni determinati dalla vita sedentaria o dal fumo, sull’alimentazione, sull’educazione sanitari, sono campagne tese a incrementare il movimento attivo dei cittadini. In Germania, Spagna e Belgio, il modello sportivo è di tipo federalistico, le competenze vengono demandate agli enti locali, nel caso tedesco i Land. In questi paesi sono i ministeri dello sport a promuovere la pratica sportiva di base, mentre i comitati olimpici operano separatamente. In Francia, che possiamo considerare un paese mediano rispetto ai vari modelli presenti nell’Ue, ci sono diversi settori che sovrintendono allo sport di cittadinanza, la scuola, i disabili, l’associazionismo sportivo, ecc, tutti operano distintamente tra loro, ma fanno parte di un’unica politica coordinata dal ministero dello sport. Nel sud dell’Europa e nei paesi dell’Est ex comunisti, il modello è di tipo familistico, inteso come forte presenza dello Stato.
Quale modello integra meglio welfare e sport?
Quello delle socialdemocrazie dei paesi del nord Europa, dove vige il principio universalistico, cioè ogni cittadino ha pari diritti, in queste politiche sono inclusi tutti, anche gli extracomunitari, che usufruiscono del diritto allo sport come gli altri, anche se è un modello che per mantenersi esercita una forte pressione fiscale, soprattutto nei confronti dei ricchi.
Potremmo dire che i paesi più ricchi hanno un alto numero di cittadini che fanno sport?
No, questo è stato smentito dalla nostra ricerca. Lo sport di cittadinanza è più presente n Inghilterra, dove prevale il modello «liberista», inteso come integrazione di pubblico e privato, lo stato sociale è supportato anche da campagne di informazione per la promozione dello sport di base.
In Italia?
Nel nostro paese si delega tutto al Coni, che si occupa della preparazione olimpica, di sport di base, di finanziamento alle associazioni sportive che operano sul territorio, di promuovere l’educazione motoria nella scuola primaria, un modello che non esiste in nessun altro pese europeo. In Italia è stato il Coni a definire il concetto di sport e le politiche della pratica sportiva che sono conseguite nel corso dei decenni. L’ente olimpico riceve finanziamenti cospicui garantiti dalla finanziaria, ma il modello italiano costa tanto e rende poco, infatti a confronto con gli altri modelli europei sopra citati, pur collocandosi a metà per grado di sviluppo umano, inteso come scolarizzazione, reddito pro capite e aspettativa di vita, l’Italia risulta in fondo alla classifica stilata da Eurobarometro (l’istituto di ricerca dell’Ue, ndr) per la pratica sportiva dei cittadini. Abbiamo un alto numero di medaglie olimpiche a fronte di un bassissimo livello di pratica motoria dei cittadini. Se occupiamo il fondo della classifica europea per la pratica sportiva dei cittadini italiani, vuol dire che ci sono state politiche fallimentari. Il finanziamento di oltre 400 milioni di euro annui destinati al Coni dallo Stato andrebbe diviso per il numero di medaglie olimpiche, sarebbe fin troppo chiaro che ogni medaglia a noi costa tantissimo. È necessario, come avviene in altri paesi europei, che il Coni si occupi della preparazione olimpica e non di tutto lo sport, e si riconosca alle organizzazioni impegnate nella promozione dello sport di cittadinanza valore giuridico ed economico. Il modello sportivo attualmente vigente in Italia è un modello arcaico.

Che cosa dovrebbe fahe care la sinistra?
Riconoscere la funzione sociale dello sport, che per alcuni aspetti ha anche un significato civico, perché lo sport significa prevenzione sanitaria, comunicazione interculturale, integrazione dei migranti, socializzazione dei disabili, che non hanno bisogno solo di terapia fisica, ma anche di stare in mezzo agli altri. Se la sinistra fa una battaglia politica sullo sport, può estendere il diritto alla pratica sportiva ai detenuti, agli anziani, a quelle fasce destinate sempre più alla marginalità, soprattutto in tempi di crisi economica.
Le politiche del welfare che includono lo sport dovrebbero vedere un ruolo attivo del sindacato?
Il sindacato oggi è considerato dal governo e anche da alcuni esponenti di centrosinistra come invadente, che si oppone al cambiamento. Negli anni tra il ’90 e il 2000, fu proprio Epifani, allora segretario della Cgil, a portare avanti la battaglia sul welfare con qualche accenno al ruolo dello sport. È necessario che il sindacato riprenda quei contenuti ridisegnando l’agenda sul welfare con bisogni e nuovi diritti e non si limiti a portare avanti trattative per alleggerire il fisco. È necessario che il sindacato assuma una prospettiva culturale diversa da quella attuale, affinché la pratica fisico-motoria di massa entri nelle politiche costitutive del welfare.
Che cosa suggeriresti a Susanna Camusso?
Fare dello sport un diritto di cittadinanza e di impegnare la Cgil a cambiare la cultura dello sport nel nostro paese, di pensare a un modello istituzionale di sport che si ispiri a quello delle socialdemocrazie europee . Avviare una battaglia contro la sedentarietà. Impegnare la Cgil a favorire un cambiamento culturale del modello sportivo italiano, oggi basato sul collateralismo politico-religioso.