Nata a Besançon, come Victor Hugo e i fratelli Lumière, nel 1936, Jacqueline Risset se n’è andata all’improvviso lo scorso 3 settembre. Negli ultimi mesi, l’immane lavoro di revisione della sua traduzione in francese delle rime di Dante l’aveva non poco logorata. «Questo lavoro finirà per uccidermi», raccontava spesso agli amici. Modi di dire che ogni tanto, con la precisione di un’imperscrutabile roulette metafisica, si rivelano veri alla lettera. Ci sono in effetti lavori e dedizioni che diventano forme di vita e infine malattie mortali. Breve o lungo che sia, lo stoppino che ci è toccato in sorte arde e si consuma più in fretta al fuoco di un’impresa difficile, dall’esito incerto. D’altra parte: se non si vive così, che si vive a fare? Ormai vicina agli ottant’anni, e ancora avvolta nel suo fascino irresistibile, Jacqueline non ha mai commesso l’errore fatale di chi si illude che invecchiare significa avere imparato qualcosa. Perché in realtà solo i mediocri capitalizzano, ricorrono al «mestiere». Un carattere autentico di artista percepisce fino all’ultimo ogni opera come un nuovo esordio, un nuovo azzardo. A questo proposito ricordo di una volta che, durante una delle lunghe telefonate mattutine che Jacqueline ragalava agli amici, abbiamo parlato a lungo di una serie di pastelli ai quali Dubuffet aveva lavorato negli ultimi giorni di vita, come un bambino che scoprisse il fascino di certi colori, del verde, del giallo squillante.

Questa inclinazione fondamentale all’esperimento è anche una chiave, a mio parere, per spiegare la fedeltà di Jacqueline a certi ideali giovanili che molti compagni di strada, in maniera più o meno esplicita, si sono dedicati a rinnegare col passare del tempo. Mi riferisco, ovviamente, alla lunga esperienza di redattrice di una rivista come «Tel Quel», che in Francia è diventata un periodico bersaglio di vituperi come da noi il Gruppo 63. Per Jacqueline, era un po’ triste vedere tanti protagonisti della grande festa mobile dello sperimentalismo piegarsi, arrivati i capelli bianchi, a più miti consigli, dedicandosi a imbastire tradizionalissimi romanzi. Tutto sommato, in quell’arte gli scrittori più commerciali erano più bravi, più avvincenti. Quanto a lei, amava gli impenitenti, i sovrani spregiatori dei dibattiti e dei periodi storici. La carriera di Henri Michaux la riempiva di ammirazione più di cento Premi Gouncourt di cui l’anno dopo non si ricorda più nemmeno il titolo.
Queste riflessioni mi conducono quasi naturalemente a parlare dell’altra opera terminale che Jacqueline ci ha lasciato assieme alla traduzione delle rime di Dante, un libro intitolato Les instants les éclairs uscito qualche mese fa da Gallimard nella collana «L’Infini» diretta da Philippe Sollers (pp. 177, euro 16,90). È duro constatare come un’opera si trasformi in un testamento così come, per riflesso, una recensione si trasforma in necrologio. Eppure, anche se nulla fa presagire la fine del work in progress, questo libro è una vera «summa», come si diceva un tempo, del tema che più interessava la scrittrice lungo tutta la sua ultima stagione: l’istante nella sua dimensione psicologica e creativa, e i suoi legami con l’infanzia e il sogno. È un’indagine che dai versi delle ultime raccolte (auto-tradotti e pubblicati da Einaudi nel 2011 con il titolo Il tempo dell’istante) si trasferisce nella prosa nitida e tagliente dell’ultimo libro: una collezione di minerali psichici e meditazioni che a lettura ultimata si rivela un memorabile esempio non tanto e non solo di letteratura, ma di «cura di sé» intesa, nel senso che Foucault dà alla celebre espressione, come attività perpetuamente orientata alla scrittura e alla produzione di forme.

Ho detto prima che quello dell’istante, o della molteplicità degli istanti che trafiggono il continuum dell’esistere, è un «tema», ma mi accorgo che questa parola è troppo parziale e approssimativa. Jacqueline ci parla di un’inclinazione fondamentale e innata del suo carattere, e dunque di una forma di vita che si sviluppa al di fuori della volontà, così come il corpo, col passare del tempo, assume certe forme e non altre. Si capisce bene come il ricorso ai ricordi dell’infanzia sia così importante e così ben allacciato alla materia onirica. La costellazione si completa e assume la pienezza del suo significato con l’esperienza amorosa, il coup de foudre che irrompe e devasta il tessuto del tempo.

Tutto questo materiale di lavoro, se così vogliamo definirlo, costringe la scrittura al di fuori di un progetto narrativo. Costituisce, come viene detto con illuminante precisione, «il contrario di un progetto». Sarà la pigrizia? si chiede spesso Jacqueline. La verità è che si è nati in un certo modo, e come don Abbondio non si poteva dare il coraggio che non aveva, non si può concepire un «progetto» semplicemente perché si vorrebbe dare ordine alla propria vita o scrivere un romanzo di successo. A Jacqueline, la lettura dei romanzi non dispiace affatto, ci mancherebbe, ma quella che ci racconta è un’altra storia, tanto più preziosa in un’epoca in cui un turpe pensiero unico, che accomuna l’editoria e le scuole di scrittura e il giornalismo, assegna allo storytelling e alle sue dozzinali felicità il ruolo spropositato di un criterio estetico universale capace di marginalizzare ogni altra forma d’espressione. E invece Jacqueline, con questo suo ultimo libro, ci ha lasciato un’inestimabile lezione di libertà, che consiste nel fare perno sul proprio limite per condurre la scrittura nell’alveo di un’assoluta spontaneità, priva di inutili concessioni allo spirito del tempo.

Come ogni libertà, anche questa che ci viene mostrata in Les instants les éclairs è frutto di una ribellione: al predominio della durata, e a tutte le forme di narrazione di sé e del mondo che la durata incatena nell’economia della causa e dell’effetto, del prima o del dopo, del verosimile. Mi colpisce molto, arrivati a questo punto, la consonanza con il pensiero di un altro grande ribelle del Novecento, arrivato anche lui, nell’ultima fase del suo pensiero, a un vero culto dell’istante e delle tecniche di annotazione di questa impalpabile, fuggitiva ricchezza. Penso al Roland Barthes della Camera chiara e soprattutto di quello stupendo ultimo corso tenuto fra il 1978 e il 1980 al Collège de France e intitolato La preparazione del romanzo. Anche in questo caso, si tratta di un testamento, ma involontario: Barthes morì pochi giorni dopo aver tenuto l’ultima lezione a causa di un incidente stradale. Ma c’è una grande differenza di metodo da segnalare: perché nelle lezioni di Barthes il modello supremo di «cattura» dell’istante è a sua volta un genere poetico altamente codificato come l’haiku del periodo d’oro giapponese, e tende al satori della pratica zen, quell’estasi di illuminazione nella quale salta la distinzione fra il soggetto e l’oggetto.

Confrontando le due opere, Les instants les éclairs ci appare più libera, perché l’autrice non si affida a un modello così vincolante. A un tale grado di indipendenza e fedeltà a se stessa, nemmeno la distinzione dell’adorato Proust tra memoria volontaria e involontaria le sembra più utile. Lo scandalo dell’istante è tale sia che andiamo a cercarlo, sia che rischiari all’improvviso la notte della durata. Più che di una teoria, si avrebbe bisogno di una magia. Ma l’unica magia che abbiamo veramente a disposizione è essere se stessi, con tutto il peso della propria trepidante, fervida «pigrizia». Noi sogniamo, ci innamoriamo, ripensiamo a un dettaglio della nostra infanzia, e una felicità anarchica, priva di «progetto», ci invade come una marea, come la luce dell’alba. E il peso che ci portavamo sulle spalle, senza merito e senza volontà, si srotola ai nostri piedi, è diventato un tappeto volante.