La generale incredulità, di fronte ai modi soavi con cui Yahya Jammeh aveva ammesso la sconfitta elettorale, era più che giustificata. Alla fine non si è smentito, l’uomo che in 22 anni di regno sul Gambia – il più piccolo stato continentale dell’Africa, il cui territorio è incastonato in quello del Senegal – si è costruito una solida fama di dittatore egotico e spietato. A otto giorni dal voto ha deciso piuttosto di smentire il fairplay con cui inizialmente aveva accettato la vittoria di Adama Barrow, un uomo d’affari a secco di esperienza politica ma sostenuto da una coalizione di sette partiti.

Così al posto della «transizione democratica» (Barrow si sarebbe dovuto insediare a fine gennaio), i gambiani si ritrovano per ora le frontiere sigillate e l’esercito nelle strade, con la più classica delle calme spettrali che regnava ieri nella capitale Banjul. La sera prima Jammeh – noto per i suoi enormi boubou bianchi, il fervore religioso (il Gambia è un paese musulmano al 90%), le velleità da guaritore e lo scrupolo con cui in tutti questi anni ha represso ogni dissenso – era apparso alla tv per dire che ci aveva ripensato, che aveva creduto all’indipendenza della Commissione elettorale e che invece le elezioni, viziate da «errori inaccettabili» e condizionate da «influenze straniere» – il Senegal – erano da rifare. Insomma, abbastanza da far trasecolare all’unisono Unione africana, Unione europea e Stati uniti, tra gli altri.

L’esile distacco tra i due candidati, fissato dopo vari riconteggi a meno di 15mila voti, non ha aiutato. Così nel pomeriggio Jammeh procedeva alla promozione di 250 ufficiali dell’esercito e al momento dell’annuncio gli snodi nevralgici di Banjul erano già presidiati da unità scelte.

Va da sé che in queste ore gli occhi sono tutti puntati sulle forze armate, dilaniate da fazioni interne. In questo senso il sorvegliato speciale è il generale Ousman Badije, fedelissimo di Jammeh che le opposizioni fin dal giorno successivo alle elezioni indicano come il cervello del golpe prossimo venturo. Mentre Barrow ieri invitava i suoi alla calma e Jammeh al rispetto della volontà popolare, negli ambienti della diaspora americana circolavano voci circa un piano per uccidere il nuovo presidente e tutto il suo team.

Adama Barrow in questi giorni aveva già parlato da presidente, annunciando la liberazione dei prigionieri politici e il ripristino delle libertà civili, a cominciare da quella di espressione, piuttosto malconcia dopo la cura Jammeh. Di più, aveva promesso misure di contrasto alla crisi economica, che unita alle persecuzioni del regime ha costretto un numero enorme di giovani – rispetto ai 2 milioni scarsi di abitanti – a tentare la via dell’Europa.