Sono almeno 30 le vittime dell’attentato avvenuto ieri alle porte di Kabul (nella foto La Presse), decine i feriti. I Talebani hanno colpito con una doppia esplosione un convoglio che trasportava funzionari della polizia. Tra le vittime, alcuni erano giovani cadetti, altri istruttori. Molti erano in attesa di un congedo per festeggiare l’Eid, la fine del Ramadan prevista tra pochi giorni. Ancora una volta, i Talebani hanno usato le maniere sporche: il primo attentatore si è fatto saltare in aria, dopo aver raggiunto a piedi uno degli autobus, non blindato. Un secondo attentatore, a bordo di un’automobile, ha poi colpito il gruppo che prestava soccorso. Uno dei portavoce del movimento anti-governativo ha rivendicato l’attentato. Un obiettivo legittimo, sostengono i barbuti, perché i poliziotti rappresentano il governo e le istituzioni afghane, vendute agli stranieri. Sui canali social del gruppo sono state pubblicate alcune foto che riprendono i due giovani attentatori – Shams-ul-Haq e Muhibullah – mentre trascorrono ore felici in riva al fiume, tra risate e pesca, prima dell’azione suicida.

Al di là della rivendicazione, è difficile capire quale sia la regia. Gli attacchi più clamorosi avvenuti negli ultimi anni a Kabul sono stati generalmente condotti dal network Haqqani, la rete fondata negli anni della resistenza anti-sovietica da Jalaluddin Haqqani e ora guidata dal figlio, Sirajuddin, attuale numero due dei Talebani dietro al nuovo leader, Abaitullah Hakundzada, eletto alcune settimane fa dopo che mullah Mansour è stato ucciso nel Belucistan pachistano da un drone americano. Negli ultimi mesi però le cose sono cambiate: sotto pressione dei pachistani, gli Haqqani hanno dovuto ridurre le attività, lasciando piazza libera a un’altra delle maggiori «cupole» del gruppo, la shura di Peshawar, a cui si attribuiscono alcuni recenti attentati a Kabul. Quello di ieri segnala una certa continuità: a finire sotto tiro sono stati i poliziotti, mentre il 19 giugno un attentatore kamikaze aveva ucciso a Kabul 14 guardie nepalesi a bordo di un minibus, membri di una compagnia privata di sicurezza. Da allora, il governo di Kathmandu ha vietato ai nepalesi di lavorare in Afghanistan.

I Talebani colpiscono le forze di sicurezza afghane per due motivi: perché rappresentano il governo, illegittimo, e dunque non sono considerati «civili»; e perché colpendo loro si colpisce anche la comunità internazionale. Da anni gli Stati Uniti e i loro alleati cercano di mettere in piedi un efficace sistema di forze di sicurezza locali. Addestramento, equipaggiamento, servizi logistici, sostegno diretto e indiretto: obiettivi che hanno costi molto alti, mentre i paesi della Nato sono sempre più recalcitranti a tirar fuori i soldi necessari. Per mantenere i 146.000 membri della Polizia, gli Stati Uniti finora hanno sborsato quasi 19 miliardi di dollari, 112 milioni soltanto nel corrente anno fiscale. Se alle forze di polizia si aggiungono l’Esercito nazionale e gli altri corpi di sicurezza, il costo sale a circa 5 miliardi ogni anno. Gli Stati Uniti finora si sono assunti l’onere più importante, ma insistono affinché gli altri paesi membri dell’Alleanza atlantica continuino ad attingere alle proprie casse. Una decisione che verrà presa a inizio luglio al vertice della Nato di Varsavia. E mentre nelle cancellerie europee si negozia sui singoli contributi e sul numero di soldati da mantenere in Afghanistan dopo il 2017, a Washington il presidente Barack Obama decide di forzare la mano: di recente ha dato il via libera ai bombardamenti americani sui Talebani, rendendo meno restrittive le regole di ingaggio.

I primi risultati sono evidenti: alcuni giorni fa gli aerei americani hanno condotto nei pressi di Kunduz un’operazione militare. L’obiettivo erano quei Talebani che avevano preso in ostaggio decine di passeggeri su una delle strade settentrionali. Almeno 14 i morti. Per il Dipartimento di Stato, un successo. Per la gente del posto, un disastro. A finire sotto il fuoco americano, sarebbero stati anche alcuni ostaggi. Per chiarire la dinamica, è stata annunciata un’indagine.