Presentato in anteprima lo scorso ottobre allo Yamagata International Documentary Film Festival in Giappone ed il mese successivo al DocLisboa, Aragane è uno dei lavori più significativi usciti dalla film.factory di Bela Tarr. Regista è Kaori Oda, giapponese con un passato di studentessa negli Stati Uniti e che ora vive a Sarajevo, approdata al cinema grazie ad un cortometraggio presentato al Nara Film Festival di Naomi Kawase nel 2011.

Ci puoi dire come hai cominciato con il cinema e come hai cominciato ad interessarti a vedere e fare film?

Volevo essere una giocatrice di pallacanestro, ho giocato per otto anni fin da quando ne avevo dieci, ma sfortunatamente un giorno mi sono rotta un ginocchio, ho subito due grosse operazioni, i dottori dissero che non avrei potuto continuare e quindi non ho più potuto giocare ad alti livelli. Fu un colpo durissimo per me, perché tutto ciò che sapevo fare nella vita era giocare a pallacanestro. Così decisi di andare a studiare in America, sai il solito pensiero per cui si crede che cambiando posto qualcosa nella tua vita possa cambiare. Quando ero negli Stati Uniti frequentai un corso di cinema, e fu la prima volta che incontrai il mondo del cinema, non ero e non sono neanche adesso una cinefila, anche se certamente ci sono alcuni film che mi piacciono. Ho realizzato il mio primo film nel 2010 assieme alla mia famiglia, si tratta di un self-documentary fatto insieme a loro sul fatto che sono gay. L’idea era quella di usare l’atto del filmare per comunicare con la mia famiglia e di venire a patti con il fatto che non avrebbero mai accettato il fatto che io fossi gay. Fu un’esperienza molto dura ma da cui ho imparato molto e ho incominciato a considerare led usare a videocamera come strumento con cui comunicare. Comunicazione fra me stessa ed il soggetto (le persone, lo spazio).

Come sei finita a Sarajevo con la film.factory?

Nel 2011 ebbi l’occasione di partecipare con il mio primo film alla sezione per studenti del Nara Interational Film Festival e lì incontrai Shinji Kitagawa, la persona che, da quando ho cominciato a fare film, più di ogni altra comprende il mio modo di fare film. Era il responsabile di quella sezione a Nara. Il film vinse il premio del pubblico e da quel momento ci siamo sempre tenuti in contatto. Nel 2012 mi scrisse una mail riguardo ad un nuovo programma a Sarajevo che avrebbe sostenuto giovani filmmaker provenienti da tutto il mondo. Ero davvero in un periodo molto difficile perché dopo il mio primo self-documentary era molto arduo realizzare un nuovo lavoro e confrontarmi con un conflitto interiore così grande. Decisi quindi di iscrivermi al programma e quindi di andare in un nuovo posto ed incontrare nuove persone. Fortunatamente fui accettata.

Ci puoi dire qualcosa di più riguardo ad «Aragane», da dove proviene l’idea di base, ho sentito che in origine doveva essere un lavoro di fiction tratto da una storia di Kafka, se non sbaglio Una visita in miniera.

Béla (Tarr, ndr) ci diede il compito di fare un adattamento, voleva che io facessi Il cavaliere e il secchio di Kafka dove un uomo fra le altre cose cerca del carbone, quindi mi recai in una miniera per fare alcune ricerche. Fui incredibilmente affascinata dal luogo e dai lavoratori e mi resi conto immediatamente che volevo filmarli così come li sentivo e non per un adattamento.

In che modo e misura Bela Tarr ha partecipato al film? Ci sono stati dei suggerimenti o delle idee che ti ha dato o ha solo fatto la supervisione del lavoro?

Gli portai alcuni minuti di girato dicendo che volevo fare il mio film. Li guardò e mi disse «vai e gira!». Abbiamo avuto un altro incontro quando ancora stavo girando, un periodo in cui ero indecisa su che direzione dare al lavoro, più focalizzato verso le persone e le loro storie o più vero il luogo/lo spazio stesso. Lui mi disse «ascolta te stessa. Cos’è che vuoi fare?» al che io gli dissi che ero attratta dallo spazio e dal lavoro manuale dei minatori. Dopo che ebbi finito di girare, lo montai e gli mostrai una prima versione, Bela mi diede alcuni piccoli suggerimenti su quale scena togliere e quale lasciare.

Hai menzionato più di qualche volta lo «spazio/luogo» e la tua relazione con esso quando realizzi un film, è un argomento affascinante. Cosa ti ha spinto a focalizzarti di più sullo spazio/paesaggio e sui macchinari? E c’è una ragione stilistica dietro all’uso di lunghi piani sequenza?

Credo di essere stata affascinata dal paesaggio perché era qualcosa di totalmente nuovo per me, completa oscurità ed un incredibile volume di rumore, ma anche silenzi quando i macchinari non erano attivi. Lo spazio mi ha attirato dentro il film, la mia videocamera, il mio sguardo è stato un comunicatore, mediatore tra ciò che mi stava davanti e me stessa. Ho provato a capire e sentire cosa stava succedendo filmando il luogo e il suo proprio tempo. Non mi sono concentrata sulle pesanti condizioni dei minatori, sulle ingiustizie ed i pericoli del loro lavoro, anche se si trovano nel film perché ero là. Spero che non mi si fraintenda quando dico questo, io e la mia videocamera abbiamo condiviso alcuni momenti con loro, focalizzarsi su aspetti sociali può essere qualcosa di buono per i minatori, dire quali sono i problemi e la nostra ignoranza su di essi, ma penso che la cosa migliore che io possa fare con il mio lavoro sia quella di essere con il soggetto filmato, lo spazio, le persone, il tempo e dare loro massima visibilità attraverso il mio essere con loro ed il mio sguardo dal momento in cui premo il tasto «recording».

Penso che in Aragane il suono sia tanto importante quanto le immagini. Potresti dirci qualcosa di più su come sei riuscita a catturare e magnificare il suono dei macchinari e se possibile, qualcosa sulla tua relazione, come filmmaker, con il suono/il rumore e con il «soundscape»?

È interessante che molte persone abbiano menzionato a proposito di Aragane il suono/soundscape. Il suono è stato registrato dal microfono della mia Canon 5D perchè non avevo qualcosa come Zoom con me, inoltre per la maggior parte del tempo ho girato da sola ed il mio focus era quindi la videocamera e l’immagine. La mia luce era sul mio casco così non avevo la possibilità di occuparmi del sound recording, tutto è stato registrato automaticamente senza particolare cura. Mi sono occupata io stessa del sound mix, ho cambiato il volume in qualche parte, ripulito dal rumore in altre o ancora creato ritmo/musica aggiungendo rumore su rumore. É stato divertente e credo che abbia dato al film un tocco sensoriale. In Aragane ho giocato un po’ con il suono e ora vorrei studiare di più l’elemento sonoro. Il film mi ha fatto capire e sentire che il cinema è un arte audiovisuale.

È Interessante che tu abbia usato le parole «un tocco sensoriale», la prima volta che ho visto «Aragane» ho subito pensato ai lavori del Harvard Sensory Ethnography Lab ((Leviathan, Manakamana, Iron Ministry, ecc.), mi hai già detto (in un’altra mail, ndr) che non hai visto i loro film e che non sei una cinefila. Ma mi chiedevo se ci sono alcune opere, filmiche o in generale nel mondo dell’arte, da cui hai tratto ispirazione.

Dopo la tua mail, ho visto Manakamana, Iron Ministry e People’s park e posso intuire dove tu vedi delle similitudini. È interessante perché prima del tuo messaggio, in passato avevo anche pensato di abbandonare il mondo dei film e diventare un’antropologa, inoltre si imparano molte cose sugli esseri umani attraverso l’atto del filmare. Non sono ancora abbastanza brava e non mi è ancora chiaro cosa io faccia con la videocamera, ma mi è molto chiaro che i miei temi sono «da dove veniamo, cosa siamo e dove stiamo andando». Potrebbe sembrare astratto e pretenzioso ma sono seria, magari non arriverò alla risposta prima di morire, ma penso di avere il diritto di esplorare e confrontarmi con questi temi attraverso tutta la mia vita. Riguardo a ciò che mi ispira o mi ha ispirato, il lavori di Wang Bing, Pedro Costa, Raymond Depardon, Wiseman, Cezanne e soprattutto la mia bibbia, Lettere ad un giovane poeta di Rilke.

Un’ultima domanda, quali sono i tuoi progetti futuri?

Ho alcuni pregetti in corso, uno è un film essai per concludere la mia esperienza come filmmaker in Bosnia, questa è la mia priorità nel momento attuale, il film è in produzione. Poi sto pianificando per dicembre un workshop su film/fotografia/videocamera un centro disciplinare a Sarajevo, un’istituzione per minori che hanno avuto problemi con la giustizia). Vorrei condividere con questi ragazzi la possibilità di usare la videocamera come strumento di comunicazione ed espressione. Questo tipo di workshop sono la cosa che mi piacerebbe fare per tutta la vita in modo costante, non so se potrò finanziare questo tipo di progetti, ma ci proverò. Terminata l’esperienza alla film.factory, potrei andare in Messico, un mio collega qui a Sarajevo è messicano, e mi piacerebbe girare qualcosa in relazione al mare, all’acqua ed alle grotte. Il progetto è al momento nelle sue fasi di ricerca e sviluppo. O forse potrei tornare in Giappone, dipenderà se sarò in grado di sostenere i miei progetti e me stessa finanziariamente.