«Il modo in cui l’America è cambiata dopo l’11 settembre 2011 è il modo in cui il Kenya cambierà dopo Garissa». Sono parole del vice presidente del Kenya Willam Ruto che a poco più di una settimana dall’attacco al Garissa University College – nel nord est del Kenya, 148 le vittime – ha intimato all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) la chiusura – entro tre mesi – del campo profughi di Dadaab e il suo trasferimento in Somalia perché ritenuto un attrattore e una base logistica per i miliziani al-qaedisti di Al Shabaab.

Una decisione populista e facile diremmo, per placare le polemiche sull’incapacità del governo di far fronte alle minacce terroristiche segnalate in tempo, questa volta, dall’intelligence. Un modo probabilmente per spostare l’attenzione dalle problematiche reali che affliggono le popolazioni che vivono al confine con la Somalia (alto tasso di disoccupazione giovanile, povertà, collusione e adattamento ai traffici e al “governo locale” degli Al-Shabaab).

Il campo profughi di Dadaab (a un’ora di macchina da Garissa) – costruito nel 1991 – ospita circa 350 mila rifugiati somali registrati.

In tutta risposta l’Unhcr ha chiesto al Kenya di riconsiderare tale decisione perché contraria alla Convenzione sui rifugiati del 1951 (della quale il Kenya è firmatario) che vieta il respingimento forzato dei profughi nelle zone in cui la loro vita o libertà sarebbe minacciata.
Il ritorno dei rifugiati somali in patria non sarebbe ancora possibile vista la situazione odierna – dopo vent’anni di conflitto – con i servizi pubblici come le scuole e l’assistenza sanitaria del tutto carenti.

Motivo per cui l’Unchr – a fronte della richiesta di chiusura del campo di Dadaab – si è invece detta disponibile a una maggiore collaborazione a rafforzare le misure di sicurezza per aiutare a proteggere i rifugiati e le popolazioni locali keniote contro possibili azioni da parte di gruppi armati o «incursioni terroristiche».

Contraria alla richiesta di chiusura del campo profughi di Dadaab si è detta anche Amnesty International sostenendo che costringere i 350.000 rifugiati somali di Dadaab a ritornare nel loro Paese metterebbe le loro vite a rischio e costituirebbe una violazione del diritto internazionale: «La violenza e l’insicurezza generale persiste e i residenti sono spesso oggetto di attacchi indiscriminati e mirati», si legge in un comunicato. «Se i rifugiati vengono rispediti in queste aree, rischiano violazioni dei diritti umani come lo stupro, gli omicidi e l’ estorsione».

Dichiarazioni non isolate a cui si accompagnano sia quelle di Medici Senza Frontiere (Msf) che di Human Rights Watch (Hrw). «Questa è una decisione che punirebbe centinaia di migliaia di persone, costringendole a tornare in un Paese dove la sicurezza e l’assistenza medica è lungi dall’essere garantita, e in alcuni luoghi è inesistente», ha dichiarato Charles Gaudry, capo missione di Msf in Kenya.

Più chiare e dirette le parole di Leslie Lefkow, vice direttore di Human Rights Watch Africa, secondo la quale invece di usare i rifugiati come capri espiatori «il Kenya è legalmente obbligato a proteggerli fino a quando non sarà sicuro per loro tornare nel loro Paese, e dovrebbe identificare e perseguire i responsabili delle uccisioni di Garissa».

A questo si aggiunga che recentemente il governo keniota è stato criticato da alcune associazioni per i diritti umani e da esperti della sicurezza per l’adozione di tattiche poliziesche pesanti – come gli arresti di massa indiscriminati soprattutto contro membri della minoranza musulmana – nella lotta al terrorismo.