Alcune espressioni linguistiche hanno la caratteristica di definire con esemplare chiarezza la dimensione politica e culturale nell’ambito della quale si muove chi le pronuncia. Di tale dimensione delimitano con nettezza i confini e determinano la profondità del radicamento cosciente ed inconscio. La locuzione «invidia sociale» è particolarmente indicativa a questo proposito.

Qualche anno fa l’economista Antonio Martino (quello che alla fine del secolo scorso aveva scritto «Marx va rispettato per il suo pathos, ma non certo per l’economia politica di cui era del tutto ignorante»), già ministro di governi Berlusconi, dedicò alla «invidia sociale» un’intera pagina del suo blog (11 giugno 2010). L’invidia sociale «è stata il carburante del comunismo, il suo ricostituente», sintetizzava il senso della pagina un ammiratore di Martino. In verità Martino, in perfetta coerenza con i suoi riferimenti ideologici (il Nozick dello Stato ultra-minimo, il Nozick secondo cui anche politiche minime di giustizia distributiva implicano una violazione dei diritti individuali), non si limitava a considerare l’invidia sociale «carburante del comunismo», bensì il «carburante» di tutte le forme di lotta di classe dal basso a partire dalle rivoluzioni di fine XVIII secolo. Insomma l’espressione «invidia sociale», pretesa spiegazione di uno dei parametri fondamentali tramite cui si periodizza la nostra storia contemporanea, è stata ed è patrimonio della propaganda di coloro che si collocano nel campo che ha combattuto e combatte il complesso delle modalità assunte dai processi di emancipazione delle classi subalterne. Propaganda bassa, peraltro; a parte qualche eccezione, l’alta cultura conservatrice ed anche reazionaria si avvale di ben altre argomentazioni.

Ebbene, nella conferenza stampa tenuta subito dopo i risultati dei ballottaggi elettorali, Piero Fassino accusa la sua avversaria vittoriosa di aver fatto «leva sull’invidia sociale» contrapponendo centro e periferie, ricchi e poveri e di aver introdotto, in tal maniera, tematiche divisive. Non sia mai che possa accendersi una qualche forma di conflitto!

È vero che oggi il conflitto può assumere modi brutti, sporchi e cattivi, ma chi ha dato un contributo fondamentale alla regressione che ha ritrasformato gran parte del popolo in plebe, dovrebbe essere capace di un minino di riflessione vera. Ed invece gli insulti di una signora « No Tav» evocano a Fassino «le tricoteuses che sghignazzavano sguaiatamente sotto la ghigliottina (Repubblica 21 giugno)». E così anche la fase popolare e sanculotta della Rivoluzione francese è sistemata.

La logica sottesa all’uso dell’espressione «invidia sociale» è quella declinata, in tutte le diverse gradazioni del «capitalismo compassionevole», dall’intera (o quasi) cultura politica del Pd. Una logica che accomuna il gruppo di derivazione Pci, in particolare i giovani berlingueriani più attivi nella «svolta» (Fassino, Veltroni, D’Alema, Mussi, secondo la memorialistica della stesso Fassino), ed i «nuovi» che con quella tradizione non hanno mai avuto alcun rapporto. Ora, a parte Mussi che in seguito ha scelto una ben diversa strada e che, in un saggio di prossima pubblicazione, riflette sulla sua generazione che «non ha retto la prova del potere», gli altri hanno rappresentato l’anima profonda delle varie «cose» e del Pd.

Non è un caso che D’Alema, criticissimo di Renzi, ne disconosca soprattutto la sua volontà di presentarsi come il Blair italiano (Intervista al Corriere del 21 giugno). A differenza del primo ministro inglese che si «circondò del meglio del suo partito», Renzi si circonda di «un gruppo di fedelissimi». Se invece avesse messo insieme ai nuovi le «forze tradizionali» che avevano fondato il Pd, allora avrebbe davvero potuto essere il Blair italiano (sottinteso: come lo era stato D’Alema). Per quanto riguarda i meccanismi della fase di accumulazione che hanno portare al riemergere di una inedita «questione sociale» nell’ Occidente, naturalmente nemmeno l’ombra di un’analisi. D’altra parte l’Ulivo mondiale è stato uno dei soci fondatori di quel processo.

E dunque qual è il nocciolo duro della critica al renzismo sulla «questione sociale? Renzi dice in continuazione che il Jobs Act è la cosa più di sinistra fatta in Italia da molti anni. Una tale assurdità, del tutto evidente, è però comprensibile in chi è completamente estraneo (e non solo per motivi anagrafici) alla lunga storia per l’emancipazione dei subalterni. Come rispondono, invece, coloro che nell’ambito di quella storia si sono formati? Rispondono che è venuta l’ora di «ascoltare» le periferie, di «ascoltare» gli esclusi, i perdenti della globalizzazione.

«Invidia sociale», «ascoltare», come sempre il lessico esprime i livelli di stratificazione di una identità radicata. Cosa vuol dire «ascoltare»? Sui meccanismi della odierna «questione sociale» esiste ormai una letteratura amplissima e di alto livello. Una letteratura alla quale chi usa il suddetto lessico, da tempo «in tutt’altre faccende affaccendato», non presta più alcuna attenzione. «Ascoltare» per cosa? Per provare ad invertire il percorso che ha moltiplicato in maniera impressionante l’esercito degli sconfitti? Un’inversione della direzione è al di fuori di ogni orizzonte per chi non ha la più la minima frequentazione con il pensiero critico. Quindi l’ascolto, come è stato chiarito, nell’impossibilità di una «inversione ad U (…) può recuperare iniziativa sul terreno valoriale (…) stabilire empatia» con le sofferenze dei perdenti. Sembrerebbe un’affermazione con finalità di satira politica, invece è proposta da autorevole fonte (Corriere della Sera, 22 giugno).

In un contesto del genere la riproposizione (semistrategica?) del centrosinistra è una prospettiva realistica? Il centrosinistra oggi e nel futuro prossimo non sarebbe che la riedizione, con qualche modifica della seconda componente, del «Pd con Vendola in pancia», secondo l’espressione usata da Scalfari prima delle elezioni del 2013.
L’unica via davvero realistica per coloro che vogliono essere gli eredi della storia del movimento operaio, è quella dell’impegno costante per la costruzione dell’ «antitesi» (sociale e politica) in una forma possibile nel nostro tempo. Impresa difficilissima, faticosa, a volte avvilente, senza garanzie di successo, ma anche senza alternative.
In un tempo, in cui, nonostante ideologie postmoderne, ritornano tracce corpose di rapporti ottocentesteschi, Ignazio Masulli (il manifesto, 24 giugno) ha indicato una importante lezione da trarre dai processi di aggregazione del socialismo di fine Ottocento. Provo ad indicarne una anch’io.

Filippo Turati, il padre del riformismo italiano, dedicò negli anni Novanta dell’Ottocento, un’intensa opera di pensiero ed azione alla costruzione dell’autonomia culturale e politica del socialismo. Volle distinguere nettamente il socialismo della «antitesi» da tutti i supposti «affinismi» della sinistra «democratica». Poi, agli inizi del secolo, sulla base di una forza reale, appoggiò il progetto di riforma fiscale del ministro democratico Wollemborg. Un proposta di riforma davvero radicale: intendeva introdurre il principio della progressività nel sistema tributario italiano. Quando il Pd proporrà una riforma che, oggi, abbia lo stesso valore di radicalità progressiva del progetto Wollemborg del 1901, si potrà riparlare di centrosinistra.