C’è qualcosa di straordinario nella storia di queste donne bosniache e del legame con la loro terra. È la storia di un’impresa economica che mette insieme competenze, visione progettuale, un’idea di cittadinanza, rispetto dei diritti umani e ambientali, e che ottiene risultati importanti dove vent’anni di politica locale e cooperazione internazionale, hanno mostrato i loro limiti

Se non ci fosse stata la guerra, quello che le donne di Bratunac e dintorni fanno rappresenterebbe una normale transizione dall’economia familiare contadina a un’impresa cooperativa. Non resterebbe che gustare lamponi, mirtilli e more, confetture e succhi di piccoli frutti della valle della Drina e godere della natura attorno al grande fiume.

Ma Bratunac non è un posto normale, perché «dintorni» qui significa: Srebrenica, 11 luglio 1995. Una strage che per numeri, modi di esecuzione, pianificazione e tentativi di occultamento, non ha eguali nella storia recente. Non la riassumo in breve, perché sarebbe offensivo per chi ha perso uno o più membri della propria famiglia. Per capire, basta immedesimarsi partendo dai numeri: 6838, identificati dall’Icmp (International Commission on Missing Persons, 12 luglio 2014), di cui 6066 tumulati nel mausoleo di Potocari, ma le ricerche proseguono, su circa ottomila stimati.

Riconoscere tutti i dolori
Ci sono stati altri episodi di violenza e uccisioni, pressoché ignorati, per malinteso rispetto di una tragedia incomparabilmente maggiore. Per capire lo stato d’animo dei vivi, è necessaria un’immedesimazione più nobile, perché si tratta di riconoscere anche il dolore delle vittime che vivevano dalla parte di chi aveva torto.
Senza uscire dall’egoismo che spinge a riconoscere solo il proprio dolore, non si supera l’odio. Nella guerra di cifre e negazioni contrapposte, a vincere sono i responsabili delle stragi di ieri. Uno dei grandi scrittori bosniaci viventi, Milijenko Jergovic, parla in proposito di «vittimismo aggressivo».

foto di Mario Boccia
foto di Mario Boccia

Le protagoniste della nostra storia, nata a Sarajevo nel 2001 da un’idea del Consorzio Italiano di Solidarietà (Ics), vorrebbero poter evitare, un giorno, questa introduzione, perché, da un punto di vista simbolico, significherebbe che la guerra ha definitivamente perso.
Se non si può ancora fare, è perché per spiegare la straordinarietà della loro esperienza si è costretti a ripartire da lì, anche se si vorrebbe lasciare il dolore nell’intimo di ciascuna e nel sentire comune. Generare la vita, senza lasciarsi ingabbiare dal passato, è una scommessa da donne.

«Prima della guerra non avevo amicizie multietniche – dice Radmila Zarkovic (Rada) – presidente della cooperativa «Insieme» (così, in italiano) e storica femminista e pacifista jugoslava, con le “donne in nero” – avevo amicizie e basta». «Ora ci chiedono quante sono le serbe e quante le musulmane e dobbiamo piegarci a specificare, ma noi siamo sempre le stesse».
La Storia va studiata e compresa, perché non si ripeta in peggio, non piegata al duello rituale delle memorie. La Memoria è un «terreno melmoso», ammoniva Primo Levi. Perfino le celebrazioni per il centenario della prima guerra mondiale, in Bosnia come nel resto d’Europa, sono state lontane dalla Storia e immerse nel presente (fino al grottesco). Figuriamoci i ventennali.
Le donne della cooperativa agricola «Insieme» di Bratunac, sanno (o praticano per istinto) che lavora per la pace solo chi traccia la linea del fronte tra chi la guerra l’ha fatta e chi l’ha subita, rispettando il lutto di tutte.

Centralità del lavoro
Quattro le idee-forza alla base di tutto: centralità del lavoro, rifiuto del vittimismo, rispetto dei diritti e dell’ambiente, crescita economica.
Bisognava rimettere la realtà in piedi, dopo che la guerra etno-nazionalista l’aveva capovolta. Riunire chi la guerra aveva diviso, riportandoli a vivere «non uno accanto all’altro, ma insieme – dice Rada – e questo non si può fare con convegni sulla multietnicità, perché in questo modo tutto è falso». «In una situazione di crisi economica, è facile scaricare le responsabilità sugli “altri” (i diversi, le minoranze) e la propaganda etno-nazionalista riparte». E insiste: «Dobbiamo ripartire dal lavoro, questa è la chiave».

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Secondo criteri di fattibilità manageriale, il luogo era il peggiore possibile. A Bratunac, c’era stato il comando militare serbo-bosniaco di zona; la pulizia etnica ai danni dei bosgnacchi (bosniaci di religione musulmana) era totale; l’80% delle case era danneggiato; attacchi di commando musulmani avevano fatto vittime tra i civili serbo-bosniaci e seminato rancore; sette chilometri verso Srebrenica, c’è il mausoleo di Potocari, con le lapidi bianche dei bosgnacchi uccisi dopo la resa della cittadina.

«Se ci riusciamo qui, si potrà fare dappertutto». Sembra l’inizio della storia ostinata di un fallimento già scritto. Nel 2003, dieci soci, in maggioranza donne, si registrano come cooperativa. Sono laiche, musulmane, cristiano-ortodosse e scelgono di chiamarsi «Insieme». Anche il nome è una scommessa.

Il vittimismo rende passive le persone; le rinchiude nel dolore e crea i presupposti per giustificare la vendetta. Riduce le donne al ruolo di vedove-perenni che ripetono all’infinito i rituali del lamento funebre. Le «vittime» non sono più lavoratrici, contadine, disoccupate. Ricostruire dignità e orgoglio, è un’altra cosa. La cooperativa non vende centrini all’uncinetto, fatti da «vedove», che fanno sentire buoni chi li compra, ma un prodotto d’eccellenza alimentare di successo.

La linea «Frutti di pace»
Ad oggi, in Italia, circa l’80% è importato da Alce Nero, per Coop, poi c’è la rete di Ctm-Altromercato e i Gas, tramite Mio-Bio di Milano. Nel 2012 la linea di confetture e succhi «Frutti di Pace» arriva al Salone del gusto-Terra-Madre di Torino, ospite di Coop.
Per arrivare a questo, «Insieme» ha gestito bene i fondi arrivati da progetti di solidarietà internazionale (cooperazione italiana, enti locali, ong etc.) rappresentando uno dei pochi casi nei quali «ogni euro donato può essere ritrovato nella struttura della cooperativa e nei suoi bilanci», dice orgoglioso Skender Hot, il direttore.
Il lavoro offerto, rispetta le normative Europee (altrimenti non ci sarebbero le certificazioni di qualità). La cooperativa è un esempio virtuoso nella zona. Dai dieci soci iniziali, oggi le famiglie associate sono cinquecento e altri si sono aggiunti in Bosnia centrale. Nel comune di Bratunac c’è una delle più alte percentuali di profughi ritornati. I lamponi hanno costruito «pacifismo in pratica».

I sorrisi non hanno etnia
Parlando di lamponi, si può ricostruire fiducia reciproca. Senza proclami e nell’unico modo possibile: sommessamente. Immaginate due famiglie contadine, profughi ritornati, di diverse religioni (o cognomi, o tradizioni mescolate lungo i secoli). Si conoscono, ma ciascuna ha i propri lutti da ricordare. Non si parlano quando s’incontrano. Poi qualcuna nota che nel campo del vicino ci sono lamponi maturi, a differenza dei suoi, e pensa che se li avesse anche lei potrebbe aumentare i raccolti. Una domanda e un caffè, così riprende un dialogo tra contadine.

È impossibile distinguere un sorriso serbo da uno musulmano, tra le contadine che aspettano il camion della cooperativa o le operaie in pausa caffè. Si sentono parte dello stesso popolo e lo stesso vale per gli uomini. Le ragioni della guerra vengono meno in questi sorrisi.

L’esperienza di «Insieme» è utile per spiegare, che il diritto di cittadinanza europeo, deve essere fondato su un patto laico tra cittadini. La guerra balcanica è un paradigma negativo: pulizia etnica e fosse comuni, sono la pratica omicida del diritto di cittadinanza basato sullo jus sanguini. La nostra lotta è la stessa.

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