Trent’anni. C’è chi diceva sono troppi, c’è chi già pensava a una condanna. Invece 30 sono gli anni sui quali ruota una parte chiave dell’inchiesta che ha portato all’arresto di Giovanni Toti, presidente della Liguria, l’uomo che s’infilò nelle prime crepe del sistema renziano e quasi dieci anni fa mise fine (almeno temporaneamente) alla storia della Liguria Rossa come le sue città e suoi porti. Ci sono più di seicento pagine di un’ordinanza fatta di mozziconi di intercettazioni, dove Toti dice «festeggiamo le rinfuse» e quattro giorni dopo arriva un bonifico da 40.000 euro e così il presidente può ringraziare «Aldino» che in realtà sull’ordinanza di custodia cautelare compare con il nome di Aldo Spinelli, ex presidente di Genoa e Livorno, quello dei camion gialli, uno dei grandi signori del porto di Genova, addirittura più longevo sui moli che nel grande business del pallone, dove non aveva mai nascosto la sua fama di highlander.

Fama e fame, quello che in questa storia, in un’ordinanza infinita scritta in oltre 4 anni di indagini, unisce almeno secondo i magistrati il mondo della politica a quello dell’imprenditoria, non solo nell’ambito portuale, ma anche in quello della grande distribuzione, coinvolgendo in un altro filone dell’inchiesta Esselunga, perché un suo consigliere di amministrazione, Francesco Moncada, finisce pure lui interdetto nelle carte dell’inchiesta.
Fama del mondo politico, quella che arriva con il potere quando lo hai conquistato e non hai nessuna voglia di lasciarlo andar via. Perché almeno fin qui anche gli inquirenti fanno intendere come in questa storia i politici non si sarebbero arricchiti personalmente. Avrebbero invece usato per finanziare la campagna elettorale quelle che i magistrati adesso chiamano «utilità», lasciando da parte la parola «mazzette», termine che dovrebbe suonare indigesto anche a chi non ha il garantismo nel sangue.

Poi c’è la fame, quella voracità che prende allo stomaco una buona parte dei signori del porto ed è fame vera, si direbbe chimica, alla faccia delle rigorose e costose diete alle quali ciclicamente si sottopongono alcuni dei principali protagonisti imprenditoriali di questa storia. Ballata che è politicamente triste e forse già deciderà il tramonto politico di Giovanni Toti, che ora si sente solo e isolato, al di là di quelle che sono le posizioni politiche, senza neppure bisogno di aspettare quelle che saranno le conclusioni di un’intricata inchiesta giudiziaria.

Ora così si può tornare a quei trent’anni, che sono la promessa mantenuta di rinnovare la concessione del Terminal Rinfuse alla Terminal Rinfuse Genova spa, la società controllata al 55 per cento da Aldo Spinelli, quello che Toti nelle intercettazioni chiama «Aldino», ma che tutti a Genova e un po’ in ogni luogo chiamano «o scio Aldo» e che ora sta agli arresti domiciliari, mentre nelle carte dell’inchiesta finisce anche il nome del figlio Roberto.

Ottenere un terminal per tre decenni, la possibilità di fare business in esclusiva sulle banchine, è un buon affare. Sapere che su quelle pietre strappate al mare il business potrà cambiare è un affare ancora migliore. Così raccontavano alcune bozze del nuovo piano regolatore del porto di Genova, una chimera per molti, un’esigenza per altri. Probabilmente un problema per alcuni degli indagati. Ora a far da collante tra politica e porto ecco apparire due protagonisti di questa vicenda giudiziaria. Il primo è Matteo Cozzani, capo di gabinetto del presidente e accusato oltre che di corruzione elettorale anche dell’aggravante del 416 bis, quella dell’associazione di stampo mafioso, accusa non rivolta a Toti. Anche Cozzani è ai domiciliari.

In carcere è finito solo Paolo Emilio Signorini, ex presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mar ligure occidentale e poi amministratore delegato di Iren. Quello che emerge nei confronti di Signorini è fin qui il capitolo in apparenza più triste. Perché lui, il grande manovratore del porto, si sarebbe fatto corrompere da Spinelli anche con 22 soggiorni di lusso al’Hotel di Paris di Monte Carlo, per un totale di 42 notti, «comprendenti anche giocate al casinò e servizi extra, quali servizi in camera, massaggi e trattamenti estetici» e poi una borsa «di Chanel e un bracciale in oro, regali destinati a terzi», come sottolineano i magistrati.

E poi denaro, certo e ancora regali ricevuti da un altro manager del porto, Mauro Vianello, anche lui finito nell’inchiesta. Vianello che storicamente è uomo vicino al Pd genovese, definizione che con onestà intellettuale non smentisce neppure Davide Natale, segretario regionale dem. Che aggiunge: «È stato nominato consulente di Iren da Signorini, cosa dalla quale ho subito preso le distanze». Vero. E forse neppure importa se Vianello in tasca ha o no la tessera del partito, quello che emerge è «un sistema tossico, che nulla ha da spartire con la nostra parte politica, un sistema che combattiamo». Da troppi anni questa è la storia di un porto delle nebbie.