Per Gaza la condizione attuale è la più pericolosa, come dimostrano le stragi di ieri. «Io non sparo se tu non spari», si fa per dire, rischia di sostituirsi a un accordo complessivo di tregua, trascinando la crisi per settimane, se non per mesi. E all’orizzonte non si vedono possibilità concrete di una soluzione negoziata. Occorre prendere atto che l’impossibilità, sino ad oggi, di raggiungere un’intesa ampia e articolata per il futuro di Gaza è figlia della proposta egiziana di cessate il fuoco che mira unicamente a distruggere Hamas. Il futuro dell’organizzazione islamista non è rilevante: è un movimento politico e militare consapevole delle sue scelte, del suo destino e delle politiche dei suoi amici e nemici. Ciò che ci interessa è la condizione di 1,8 milioni palestinesi detenuti di fatto, da almeno sette anni, nella prigione a cielo aperto di Gaza e rimasti negli ultimi 20 giorni sotto le bombe israeliane perchè il regime egiziano, in evidente alleanza strategica con Tel Aviv, ha deciso di tirare il collo ai Fratelli Musulmani palestinesi (Hamas).

 

Tutti i nemici della Fratellanza si sono schierati a difesa della proposta egiziana che prevede un cessate il fuoco immediato senza alcuna garanzia che gli eventuali negoziati portino a un cambiamento radicale della vita dei civili palestinesi. Senza dubbio anche Hamas ha le sue grandi responsabilità. Khaled Meshaal e gli altri dirigenti del movimento islamico hanno accettato la strada del confronto militare con Israele anche per rompere l’isolamento totale in cui si trovavano da un anno, da quando il golpe militare in Egitto ha rovesciato il presidente islamista (e loro alleato) Mohammed Morsi. E da quando l’Arabia saudita ha dichiarato guerra aperta ai Fratelli Musulmani al punto da mettere sotto assedio diplomatico la rivale monarchia qatariota (sponsor regionale della Fratellanza). Allo stesso tempo chiunque abbia avuto modo di girare in questi giorni per le strade della martoriata Gaza e di parlare con gli abitanti, ha potuto constatare che le richieste presentate dalla leadership di Hamas per il via libera alla tregua in realtà sono quelle di tutta la popolazione, di tutte le forze poltiche, anche degli esponenti locali di Fatah, il partito di Abu Mazen. Che Hamas esista o meno, i palestinesi di Gaza continueranno a reclamare i loro diritti, a chiedere di essere liberi.

 

Abu Mazen e l’Anp sono stati tra i critici più duri della proposta di cessate il fuoco presentata da John Kerry, proprio come Israele che domenica scorsa ha reso ufficiale il suo rifiuto dell’iniziativa del segretario di stato Usa, bollata come vicina ad Hamas e lontana dalle esigenze di sicurezza dello Stato ebraico. L’Anp accusa Kerry di aver organizzato un “Summit degli Amici di Hamas” con Turchia e Qatar e di non essere stata informata della proposta statunitense. E domenica Abu Mazen si è recato in Arabia saudita per consultazioni immediate con re Abdallah. Poi anche il Cairo ha fatto conoscere il suo malumore e infine è giunta la presa di posizione israeliana, con il premier Netanyahu che ha ribadito che per il suo governo esiste una sola proposta, quella formulata dall’intelligence agli ordini dell’alleato presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi. E va rimarcato che qualche giorno fa il ministro degli esteri egiziano Sameh Soukri, in linea con la posizione israeliana, ha attribuito la responsabilità delle morti dei civili palestinesi tutta ad Hamas. Davanti all’isolamento dell’iniziativa di Kerry, Barack Obama è intervenuto sconfessando il suo ministro degli esteri e dando pieno appoggio alle richieste di Netanyahu. Ha prima chiesto «Un cessate il fuoco umanitario immediato e incondizionato», come indica la proposta egiziana, e poi ha sottolineato l’importanza di garantire una sicurezza duratura a Israele, che passa attraverso la «smilitarizzazione di Gaza» e il «disarmo dei gruppi terroristici».

 

In definitiva molte parti sono felici del pestaggio che sta subendo Hamas anche se poi il prezzo più alto lo pagano i civili palestinesi. E ancora una volta dietro le quinte agiscono anche i grandi manovratori sauditi. L’ex ministro della difesa israeliano Shaul Mofaz qualche giorno fa aveva sorpreso il conduttore di Canale 10 lasciando intendere che Tel Aviv di fatto sta facendo il lavoro anche per l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Poi ha precisato che questo due Paesi sono pronti a ricostruire Gaza una volta che Hamas sarà messo fuori gioco. Amos Gilad, uomo di punta dell’establishment politico-militare israeliano da parte sua ha dichiarato di recente all’accademico James Dorsey: «Tutto è sotterraneo, nulla è pubblico. La nostra cooperazione di sicurezza con Egitto e gli Stati del Golfo è unica. Questo è il miglior periodo per le relazioni con il mondo arabo». Mossad e funzionari dei servizi segreti sauditi si incontrano regolarmente, rivelano a mezza bocca gli esperti di sicurezza, e cooperano in molti paesi e aree di crisi, a cominciare naturalmente dall’Iran. E in modo sempre più aperto. Il principe Turki, nipote di re Abdallah, a maggio era volato a Bruxelles per incontrare il generale Amos Yadlin, un ex capo dell’intelligence militare di Israele.