Il cancelliere George Osborne, ministro delle finanze in carica e architetto principale dell’austerità, è anche un po’ primo ministro in pectore: una volta fattosi da parte David Cameron (ritiro già annunciato prima delle elezioni del 2020), né la filoxenofoba Theresa May agli interni, né il giullaresco sindaco di Londra Boris Johnson al momento paiono rivali davvero temibili, anche perché la crescita dell’economia del paese – calcolata dall’Office for budget responsibility (OBR) al 2.4% nel 2015 e 2016 – sostiene egregiamente il consenso del partito presso le classi medie del sud dell’Inghilterra, da sempre zoccolo duro dell’elettorato conservatore.

Ma pur nell’attesa di succedere al suo leader e premier, quella di Osborne dietro la chimera del pareggio di bilancio è una corsa niente affatto spensierata. Soprattutto da quando, in un momento di evidente esaltazione, si lasciò sfuggire la promessa di un surplus di 10,1 miliardi di sterline entro il 2015: un avanzo annunciato in mezzo alle fanfare nel 2010 e finora regolarmente disatteso.

E sì che per (non) raggiungerlo ha dovuto fare ricorso a tagli nella carne dello stato sociale come non si vedevano dall’economia di guerra del secondo conflitto mondiale.

Per questo la spending review (quella revisione della spesa pubblica che in Italia un po’ tutti chiamano col nome inglese, quasi sperando che il nostro paese, intossicato com’è dalla tabe dell’assistenzialismo, rinunciando all’idioma nazionale possa anche magicamente beneficiare dell’afflato, anzi della vision, aziendalista dei Tories) di mercoledì era appuntamento di grande importanza. Non solo per le fasce più deboli della popolazione – vittime della mietitura di 12 miliardi di sterline dalla spesa pubblica decisa a malincuore dalla conventicola di Eton – ma per la posizione di Osborne stesso.

Non solo il cancelliere, ora all’inizio del suo secondo mandato, non ha appunto raggiunto i draconiani obiettivi del saldo positivo, spostando la linea del traguardo avanti di altri cinque anni. È anche reduce dalla cocente bocciatura ai Lords (votata anche dal suo partito) del controverso programma di tagli ai tax credits o crediti d’imposta, le somme erogate ogni anno a lavoratori a tempo pieno che non riescono a stare a galla con il minimo sindacale.

Una misura penalizzante proprio per quelle famiglie che lavorano duro e faticano ad arrivare alla fine del mese. Le stesse a cui, forse in preda all’euforia dello champagne, Osborne aveva annunciato appartenesse ora il suo partito. Il “partito dei lavoraTory:” non si sa se indigni di più l’usurpazione terminologica o se affascini il marcato sapore surrealista.

E dunque mercoledì Osborne ha fatto sgommando la sua inversione a U, che il ministro ombra delle finanze McDonnell non ha mancato di denunciare. Non si è trattato di una ritirata, ma di un cambio di passo.

I tagli ci sono e continueranno a esserci, solo che il cancelliere ha beneficiato di varie circostanze mitiganti: un buon gettito fiscale (27 miliardi) e delle previsioni confortanti sullo stato di salute dell’economia scrupolosamente redatte dall’OBR, agenzia rigorosamente super partes voluta dai Tories per dare una patina scientifica al salasso dello stato sociale con cui pagano il disavanzo.

Va da sé che tali previsioni possono sempre cambiare. Inoltre, ancora una volta la mano sinistra rende quello che la destra toglie. I tagli del complicato ed imminente sistema di Universal credits con cui il governo ha rifondato il sistema dei sussidi ereditato dal Labour, compenseranno egregiamente questo moto d’umanità.

Tagli ai tagli insomma, ma apparenti. E indotti anche dal panico innescato nell’opinione pubblica dalla violenza degli attacchi parigini, come dalla conseguente militarizzazione della Francia imposta da Hollande.

Parigi ha improvvisamente mandato in soffitta pesanti decurtazioni all’organico e al budget della polizia, mentre in Inghilterra e nel Galles Osborne si convinto a stanziare 500 milioni (30% in più del budget precedentemente fissato) per antiterrorismo e pubblica sicurezza.

Resta protetta la spesa per la sanità pubblica – anche se il deficit dell’NHS è ciclopico – con stanziamenti per 6 miliardi nei prossimi anni. Il tutto compensato da altri tagli al comparto energetico e alla lotta al riscaldamento globale.

Ma si sa, è ormai da prima di vincere le elezioni, nel 2010, che David Cameron non abbraccia più cuccioli di foca.