Nel 2000 si aprì a Mosca, ospitata senza troppo clamore nei locali dell’Archivio di Stato della Federazione Russa sulla via Pirogovskaya, la mostra Agonia del terzo Reich. La nemesi, dove per la prima volta erano esposti i reperti conservati negli archivi segreti sovietici relativi alla morte di Hitler. Tra essi un frammento del teschio del Führer, lo schienale del divano con macchie del suo sangue, ma anche i manoscritti dei diari di Goebbels, le due pistole Walter dell’ultimo Reichskanzler e di sua moglie Magda, e ancora acquarelli del fondatore del nazismo, decorazioni, documenti e fotografie. Gran parte dei reperti trovati nel bunker della Cancelleria del Reich, e i resti umani recuperati per essere identificati dopo vari trasferimenti, erano stati fatti distruggere da Jurij Andropov, capo del Kgb, all’inizio degli anni settanta.

La mostra di fatto chiudeva la lunghissima querelle sulla fine del fondatore del Terzo Reich, confermando con dati fattuali quello che comunque già si sapeva dalle varie ricostruzioni, fondate per la maggior parte su deposizioni, testimonianze e scritti memorialistici di persone vicine al Führer negli ultimi giorni di vita (tra di loro l’aiutante personale di Hitler Otto Günsche, la sua segretaria Gertrude Junge, ma anche l’assistente dell’odontoiatra di Hitler Käthe Häusermann, che poi rimase a lungo incarcerata in Unione Sovietica).
Tra le fonti di indubbio rilievo ci fu anche il libro di Elena Rzhevskaja La fine di Hitler fuori dal mito e dal romanzo giallo (Cei, 1965), apparso prima su rivista in Unione Sovietica e poi in volume (la traduzione italiana precedette le altre).

Elena Rzhevskaja (il suo vero cognome era Kagan, mentre lo pseudonimo fa riferimento alla città di Rzhev e alla famosa lunga e sanguinaria battaglia cui la scrittrice prese parte in qualità di interprete) ebbe un ruolo importante nelle indagini relative alla fine del Führer, essendo stata tra i primi ad avere accesso al bunker con la commissione d’inchiesta del colonnello Gorbušin. Proprio a lei fu affidata, l’8 maggio del 1945, una scatola color rosso scuro contenente la mascella intatta del Führer; e proprio lei, in qualità di interprete dello Stato Maggiore dell’Esercito, seguì le varie fasi della identificazione dei cadaveri e dei resti umani ritrovati nel bunker.
Ma Elena Rzhevskaja fu anche un’attenta cronachista, in possesso di indubbie doti di scrittrice: le Memorie di una interprete di guerra (Voland, nella bella e curata traduzione di Daniela Di Sora (pp. 46, euro 20,00), confermano questa stupefacente combinazione di precisione fattuale e talento letterario, ricostruendo ora in modo dettagliato, ora con brevi schizzi supportati spesso da materiali d’archivio (lettere, memorie, documenti), la lunga avanzata dell’armata rossa dai dintorni di Mosca fino alla conquista di Berlino. Le diverse parti del libro costituiscono un tutto organico, marcato da una genuina omogeneità di stile, come peraltro auspicava l’autrice stessa, che annota: «Quando ci si accinge a scrivere di cose che si sono vissute, costringiamo spesso la memoria a una certa coerenza». Proprio perciò, il libro si legge non come un semplice diario, ma come un romanzo, alla stregua dei capolavori di Viktor Nekrasov, Emmanuil Kazakevi e Vasilij Grossman, del quale è appassionante leggere – in contemporanea con il libro di Rzhevskaja – Uno scrittore in guerra (Adelphi, 2015).

Il racconto di Elena Rzhevskaja parte dai giorni della difesa di Mosca, ed è interessante leggerlo anche alla luce di documenti, recentemente resi noti, che forniscono una diversa versione delle gesta relative alla difesa della città nei pressi di Volokolamsk. Allo scoppio della guerra, ancora studentessa, l’autrice fu inviata alla seconda fabbrica di orologi di Mosca, convertita alla produzione di bossoli per cartucce; ma come tante sue coetanee avrebbe desiderato andare al fronte. Avendo studiato il tedesco, riuscì a essere ammessa ai corsi per interpreti militari e ben presto fu trasferita a Stavropol’ nel sud-est della Russia per essere addestrata; tra le pagine del suo diario avrebbe poi descritto con molta forza la figura dell’insegnante esterno di tedesco, lo svizzero Theo Auerbach, «autore dell’unico dizionario di parolacce al mondo».

Dopo il difficile rientro a Mosca, a tratti su slitte con i piedi infilati nel fieno, Elena Rzhevskaja raggiunse le unità di combattimento e diede inizio alla sua epopea bellica. Si viaggiava nella neve di un inverno che raggiunse i meno quaranta, si visitavano villaggi devastati, nella controffensiva si fecero prigionieri e si raccolsero documenti e materiali a stampa del nemico, volantini, regolamenti militari. Il compito dell’interprete era quello di definire in ogni particolare la condizione materiale e psicologica del nemico, il morale delle truppe tedesche. Una galleria di combattenti, contadini e prigionieri arricchiscono l’ampio panorama umano che la guerra combinò in modo del tutto casuale: vi si trovano la vecchia contadina Matrëna Nilovna, l’ufficiale tedesco Hans Thiel che prima della guerra era naturalista studioso di farfalle, e il capitano Kasko, un Caronte rossiccio che raccoglieva notizie sui caduti in battaglia. Di particolare interesse la parte dedicata ai lunghi combattimenti intorno a Rzhev, cittadina che sarebbe poi stata visitata da Stalin nell’unica sua sortita al fronte (la recente apertura di un museo nella casa dove si fermò il generalissimo è in questi ultimi mesi all’origine di un intenso dibattito sulla stampa in Russia).

Con l’avanzare del fronte verso occidente la narrazione di Rzhevskaja si sposta prima in Polonia, poi in Germania. E nel racconto trova spazio una vivida galleria di personaggi: la pianista Pani Maria, che a Varsavia ha nostalgia dell’amato Bach, quasi che i tedeschi dichiarandone la piena appartenenza alla razza ariana glielo avessero portato via; il maggiore Bystrov, ossessionato dall’idea di catturare Goebbels, e i tanti prigionieri di guerra dei tedeschi liberati dai sovietici: francesi, inglesi, americani e anche italiani: poi, i vari collaborazionisti, la prostituta Marianna innamorata del belga Alfred, i sempre più numerosi soldati nemici che si arrendono.
L’attenzione di Elena Rzhevskaja va anche agli sconfitti: il suo lavoro di interprete la portava a controllare tutta la documentazione abbandonata dal nemico, anche le corrispondenze personali dei soldati e degli ufficiali dei quali riporta moltissimi estratti, che mostrano tutta la contraddittorietà dei sentimenti dei soldati tedeschi al fronte e dei loro familiari, ora pienamente fiduciosi in un capovolgimento dei destini della guerra, ora stupiti per l’inatteso trasferimento delle operazioni belliche sul proprio territorio, ora demoralizzati al pensiero della ineluttabile disfatta. Accanto a documenti di anonimi attori della grande tragedia, anche personaggi storici, per esempio il generale jugoslavo Stefanovi, che aveva incontrato nel lager il figlio di Stalin, Jakov, morto in circostanze mai chiarite fino in fondo nell’aprile del 1943.

Per il resto, il volume si concentra sul destino di Hitler, sulla sua morte, sull’ordine di bruciarne i resti mortali (Hitler era rimasto colpito dalla fine di Mussolini e l’esposizione del suo cadavere a piazzale Loreto), sulle perizie mediche del dottor Škaravskij e la volontà di Stalin di tenere segreta la morte del Führer per i propri calcoli politici all’indomani della vittoria. Proprio la questione relativa al comportamento di Stalin e dei suoi fedeli, Berija e Abakumov, e il racconto delle rivalità tra controspionaggio e ministero degli Interni, motiva l’inserimento dell’ultimo capitolo, quello relativo all’incontro con Zhukov già nel 1965, quando il grande condottiero che stava preparando tra mille difficoltà censorie le proprie memorie volle conoscere l’autrice di Gli ultimi giorni di Hitler. Fino all’ultima sua pagina questo libro si conferma, dunque, come un documento insostituibile nell’ambito del complesso e ancora oggi aspro dibattito storiografico su Stalin.