Stavolta niente esecuzioni sanguinarie né riscatti a sette zeri. Stavolta l’Isis tratta: ieri la Giordania ha accettato di rilasciare Sajida al-Rishawi, miliziana di al-Qaeda, in cambio del pilota giordano Moaz al-Kasasbeh e del giornalista giapponese superstite, Kenji Goto.

Al-Kasasbeh era stato catturato dai miliziani di al-Baghdadi un mese fa, dopo che il suo jet era stato abbattuto mentre era in volo sopra il cielo siriano. Amman, rendendo pubblico l’accordo di scambio con il califfo, ha fatto solo il suo nome: il militare proviene da una potente tribù della città di Karak e le possibili reazioni della famiglia preoccupano molto il governo, la cui stabilità si regge su un ramificato sistema clientelare e il delicato equilibro che la famiglia reale mantiene tra le varie tribù locali.

Di Goto non si è parlato ufficialmente, ma secondo fonti governative anche il suo nome è nella lista. Il giornalista era ricomparso in un video pubblicato sabato, costretto a mostrare la foto del corpo ormai senza vita dell’altro ostaggio giapponese, Haruna Yukawa. In un messaggio successivo i miliziani concedevano a Giappone e Giordania 24 ore di tempo. E così in cambio della vita dei due ostaggi, Amman restituirà la libertà ad una donna che nel 2005 attaccò insieme ad altri 4 attentatori suicidi tre hotel della capitale giordana, uccidendo 57 persone. La sua cintura non esplose, fu catturata e condannata a morte, pena sospesa.

I movimenti avvengono dietro le quinte: non è semplice giustificare alle proprie opinioni pubbliche – e a quelle dei paesi della coalizione anti-Isis – che si sta trattando con il nemico: due giorni fa ad ammettere che un negoziato indiretto era già in corso era stato il presidente della commissione Esteri della Camera, Bassam al-Manaseer, negoziato gestito da leader tribali e religiosi iracheni.

Non mancheranno effetti collaterali a seguito dell’ufficioso dialogo con il califfato da parte di uno dei più fedeli alleati Usa, Amman, da subito in prima linea nel fornire basi e uomini alla coalizione e ad aderire al programma di addestramento delle opposizioni moderate siriane insieme alla Turchia. In Giordania non sono pochi quelli che alzano la voce per una discesa in campo ritenuta non necessaria, una guerra che «non riguarda Amman». E i sostenitori della lotta all’Isis non faranno che assottigliarsi dopo un simile accordo: martedì notte centinaia di manifestanti hanno marciato per la capitale, cantando slogan contro re Abdallah, grave crimine in Giordania.

Ma perché al-Rishawi, la donna irachena che l’Isis chiama «la sorella prigioniera», è tanto importante da valere un accordo di scambio? Sajida è la sorella di Mubarak al-Rishawi, uno dei bracci destri del fondatore di al Qaeda in Iraq, Abu Musab al-Zarqawi, ucciso nel 2006. Ovvero, il fondatore del gruppo da cui è nato l’Isis di al-Baghdadi, che ancora lo considera una figura di riferimento. La liberazione della donna avrebbe quindi un significato simbolico e un ritorno concreto: mostrarsi come l’erede della vera al-Qaeda e attirare così altri adepti, soffiandoli agli stessi gruppi qaedisti, a partire da al-Nusra.

L’Isis è sempre alla ricerca di nuovi miliziani: secondo l’ultimo rapporto del Centro Internazionale per lo studio della radicalizzazione e della violenza politica (realizzato da università occidentali e arabe), il numero di miliziani stranieri in Siria e Iraq è salito a 20.730, «la più ampia mobilitazione di combattenti stranieri in paesi a maggioranza musulmana dal 1945». Nuove leve giunte da 50 paesi e andate ad arricchire le già ampie file del califfato e del Fronte al-Nusra.

«Si stima che il 5-10% di loro siamo morti e un altro 10-30% abbia già lasciato le zone di conflitto». Con un tale sistema di arruolamento, si comprende bene perché l’Isis continui la sua avanzata e perché la scorsa settimana il Pentagono sia stato costretto ad ammettere che in 5 mesi fa la coalizione è stata in grado di strappare allo Stato Islamico solo l’1% dei territori occupati in Iraq, 700 km quadrati contro i 55mila in mano al califfo.

La vittoria appena archiviata dai kurdi di Kobane appare così ancora più significativa. A due giorni dall’annuncio della liberazione della città, si combatte nei villaggi intorno, mentre dal confine con la Turchia molti profughi hanno tentato di rientrare nelle loro case, fermati dai cannoni ad acqua dell’esercito di Ankara. E ora è il tempo della ricostruzione: il 50% della città è distrutto, mancano cibo, medicine, acqua e elettricità.