La sotto-motricità è una condizione ideale per fantasticare, immaginare, sognare. Non c’è eroe della grande letteratura romantica che non assuma una postura di questo tipo prima di intraprendere un viaggio fantastico. Modello di questa mobilità immaginaria, indotta dalla rigidezza corporea, rimane il protagonista delle Confessioni di un mangiatore d’oppio di Thomas De Quincey. A volte, l’immobilità può essere una chance da cogliere, e non un ostacolo, per accrescere la potenza di agire, e questo nella forma dell’esplorazione fantastica. Per realizzare un mondo alternativo, quanto meno lo si deve prima immaginare.
Da diverse fonti viene fatta notare l’attuale fase di ristagno dei movimenti di contestazione, sembra si rimproveri al movimento di non muoversi abbastanza, di non andare lì dove dovrebbe. Ebbene, volendo prendere per buona tale paradossale osservazione, diciamo che questa situazione di stallo motorio può diventare un’ottima occasione per il movimento per tornare a sognare collettivamente. Ora, l’unico grande mezzo che la modernità abbia mai avuto per fare sognare le collettività, è il cinema.

Pattumiere rischiose

Sebbene gli estremi difensori della modernità pensino che la produzione filmica degli ultimi trent’anni sia animata solo da nostalgia e da un vuoto gioco di forme, e per quanto i media studies nell’ultimo ventennio abbiano dedicato la loro attenzione prevalentemente alla rete, diventando egemonicamente internet studies, il cinema, come aveva capito perfettamente Walter Benjamin, continua a «riscaldare il cuore» delle masse, non foss’altro perché, sua prerogativa esclusiva rimane la creazione di una scandalosa intimità psichica con un pubblico di estranei, provata in uno stesso spazio (la sala) e in uno stesso tempo (la durata del film).
A quanti, modernisti o media theorist che siano, si affrettano a cestinare il cinema nella pattumiera delle cose vecchie del passato, non si ricorderà mai abbastanza il monito con cui Raymon Williams nel 1985 in una conferenza dedicata a Cinema e socialismo (di prossima pubblicazione per l’editore ombre corte), avvertiva profeticamente la Sinistra di fare attenzione a ciò che «rottamava» perché nella «pattumiera della storia», assieme agli oggetti rottamati, sarebbe finita anch’essa e le sue idee.
Ora, per le masse e per il movimento, cosa vale la pena di sognare al cinema? L’ultimo film di animazione di Hayao Miyazaki, Si alza il vento, entra nel vivo della questione con un’originalità inaudita. Non che il cinema nella sua lunga storia, dalle origini fino alla svolta digitale, non abbia mai affrontato il sogno. Gino Frezza in uno dei capitoli del suo recente Dissolvenze. Mutazioni del cinema (Tunué, pp. 164, euro 16,90) ha ricostruito questo affascinante percorso, definendo un campione di osservazione al quanto rappresentativo. L’autore, sulla scia di André Bazin prima, e di Gilles Deleuze poi, assume come momento di passaggio dal cinema classico a quello moderno la fine del Secondo dopoguerra e, in base a questa partizione, ci indica il modo attraverso cui, in queste due distinte fasi evolutive, i film hanno pensato e formalizzato il sogno, e così facendo hanno letteralmente fatto sognare il pubblico.
Nella fase classica, dalle origini europee fino alla meta hollywoodiana, in film come Dreams of rarebit fiend del 1906 di Edwin Porter, Le avventure del barone di Müchausen del 1911 di Georges Méliès, Io ti salverò del 1945 di Alfred Hitchcock, il cinema indica allo spettatore l’ingresso nella fase onirica attraverso il procedimento della dissolvenza incrociata: l’immagine progressivamente si sfoca in un’altra che la sostituisce. Nella sua fase moderna, in film come Le tentazioni del Dr. Antonio del 1962 di Federico Fellini, Belle de jour del 1967 di Luis Buñuel, L’amour l’aprés midi del 1972 di Erich Rohmer, ma anche nei risultati estremi del primo Matrix del 1999 dei fratelli Wachowski, poiché, scrive Frezza, «le competenze spettatoriali… sono divenute un sapere collettivo», quindi «risultano decisamente in grado di ordinare il più casuale flusso delle immagini sonore, e di ricomporre con maggiore libertà i sensi ad esse attribuite», il cinema moderno si sente libero di abbandonare la dissolvenza incrociata e di non segnalare più allo spettatore l’incipit del sogno, preferisce di molto lasciare che l’onirismo pervada la realtà, che le inquietudini dei sogni facciano vacillare le sicurezze della percezione quotidiana.

Relazioni fra le nuvole

Se assumiamo questo campione come quadro di riferimento, in cosa distinguiamo l’inaudita originalità del sogno nel film di Miyazaki? Per i protagonisti dei film campionati, sognare significa andare al rimosso della propria esperienza soggettiva: tanto per il Gregory Peck nel classico di Hitchcock, quanto per Catherine Deneuve nel modernissimo di Buñuel, i sogni fanno emergere i lati più oscuri della loro personalità. Per dirla in breve, la portata del sogno si risolve con la biografia del singolo.
Tutt’altro il caso di Jiro Horikoshi, il protagonista di Si alza il vento: il giovane sogna continuamente, e nei suoi sogni incontra sempre Giovanni Battista Caproni, ingegnere aeronautico italiano, grande progettista di fama internazionale. Questi incontri onirici hanno per Jiro un alto valore formativo al punto che sarà in base agli insegnamenti morali dell’italiano che arriverà, alla fine del film, a realizzare il suo progetto, il Mitsubishi A5M, quel micidiale Zero con cui il Giappone bombarderà Pearl Harbour. L’ultimo sogno, quindi, l’ultimo incontro tra i due, è particolarmente significativo: Caproni ricorda a Jiro che progettare aerei è il più bel sogno da sognare, ma che i progettisti sognano solo sogni maledetti. Vogliono costruire macchine per volare e divertirsi che diventano puntualmente strumenti di morte.
Appare evidente la distanza che separa questo tipo di sognare da quello del cinema classico e moderno: mentre i sogni dei protagonisti di quest’ultimo non riescono mai a superare i limiti delle proprie individualità, quello di Jiro si presenta sì come un sogno di un singolo, ma da subito abitato da una profonda sostanza epica che coinvolge il destino di un’intera nazione. Inoltre, appare pure evidente la distanza di Si alza il vento dal resto dell’opera di Miyazaki: mentre in capolavori precedenti come Nausicaä della Valle del vento (1982), Principessa Mononoke (1984) e La città incantata (2001), la narrazione si struttura attorno a figure archetipe materne – individuate con precisione dalla sociologa Roberta Bartoletti nel suo recente Grandi madri mediali. Archetipi dell’immaginario collettivo nel fumetto e nel cinema d’animazione (Liguori, pp. 132, euro 15,99) – in questo, invece, si fa attraverso quelle paterne, si pensi non solo a Caproni, ma anche all’ingegnere tedesco Junkers che esercita la sua influenza scientifica su tutti i progettisti aeronautici giapponesi e al capo Kurokawa che addirittura farà da testimone di nozze al protagonista.
Si dirà che, in fondo, quello di Jiro è un sogno di morte, reazionario perché i suoi effetti creano macchine di guerra volanti al servizio di un Impero. Questo, però, è proprio il punto più controverso e seducente: cos’è questo sogno un attimo prima che venga catturato dalla tecnologia militare? Cosa sono le fantasticherie del piccolo Jiro l’istante prima che l’ingegnere Jiro le faccia diventare il famigerato Zero?
Sebbene il sociologo francese Patrice Flicy si sia messo a tessere in modo alquanto ingenuo le lodi dell’internauta costruendo il tipo dell’amatore nel suo recente La società degli amatori. Sociologia delle passioni ordinarie nell’era digitale (Liguori, pp. 112, euro 11,99), non dobbiamo dimenticare che in importanti lavori come la Storia della comunicazione moderna e L’innovazione tecnologica, ha individuato in termini storici e strutturali la funzione propulsiva svolta dall’immaginario sociale nella determinazione di ogni nuova tecnologia.

Il dono del cielo

Se guardiamo al sogno di Jiro prima che si realizzi nello Zero, non troviamo altro, allora, che un desiderio socialmente diffuso nelle giovani generazioni di attraversare i cieli su macchine volanti. E anche lì dove la maledizione che grava su questo sogno lo condanna a realizzarsi in uno strumento di distruzione, ebbene, anche a fronte di questa terribile realtà, in essa viene preservato l’istante incantato che lo voleva desiderio collettivo di qualcosa d’altro dalla morte. In una delle sequenze oniriche più belle del film di Miyazaki, Caproni mostra a Jiro quello che il giorno dopo, consegnato all’aviazione militare, sarebbe diventato uno dei più grandi cacciabombardieri dell’epoca, eppure, prima che la maledizione si compia, l’ingegnere italiano fa una cosa stupenda: regala il primo volo di quello che non è ancora uno strumento di morte, agli operai che lo hanno costruito e alle loro famiglie, come se quell’aereo non avesse altro scopo che riscattare col divertimento e l’ebbrezza del volare, la fatica costata per realizzarlo.
Crediamo che per le masse e per il movimento, in questo che si vuole un momento di stasi, gli unici sogni da sognare collettivamente grazie al cinema siano sogni maledetti come questo di Jiro, sogni in cui si raccolgono desideri e progetti collettivi che, seppure colpiti dalla maledizione di una realtà che li mette al servizio di forze reattive e reazionarie, vanno preservati nella loro purezza proprio dentro il reale che li ha dannati. Cos’è il comunismo se non il sogno più maledetto che la società abbia mai sognato? Maledetto dal Capitale, dalla socialdemocrazia, dallo stalinismo, dalle destre dei partiti comunisti e dei sindacati, ma pur sempre il più bel sogno da sognare.
Non è un caso che Williams aprisse quella conferenza ricordando che il movimento operaio crebbe e si affermò in corrispondenza della nascita e dello sviluppo del cinema.