Tra i film in «proiezione speciale», dicitura che mai come in questa edizione 68 del Festival di Cannes – che si è appena concluso – ha coinciso con «invisibile» c’è anche Oka di un grande cineasta quale è Souleymane Cissé. Il pionieri del cinema africano ci regala nel suo nuovo film un affresco della sua splendida militanza dietro la macchina da presa nella forma di un viaggio all’interno della propria famiglia, delle tradizioni, nei luoghi di appartenenza a partire dalla sua casa in Mali.

 

 

Cissé racconta la storia dei suoi antenati a Bamako, un’epopea che viene da lontano, molto prima dell’era coloniale, una saga che coinvolge generazioni, attraverso tutte le epoche. Oka è un’autobiografia con molte voci, quella dell’autore e quelle della sua famiglia: da quando era bambino e coltivava un grande amore per le scoperte, mentre giocava con le quattro sorelle e per la prima volta si trovava davanti a quello strambo oggetto di nome «cinema». Così si cresce e Cissè diventa un cineasta, lo vediamo tra il vento e le dune dei propri luoghi, sempre più fisici mentre dirige Yeelen.
Nel tempo arriviamo al presente. La polizia sfratta la famiglia Cissé dalla casa dove è nato, è cresciuto e ha vissuto tutta la vita. Le sorelle di Cissé provano a resistere, urlando la loro angoscia, chiedendo giustizia. Questo scontro divide il quartiere e l’intero Paese e la lotta delle quattro donne pronte a perdere la vita per affermare il loro diritto alla casa, è divenuta una metafora e il simbolo della giustizia. Perché parlare di casa lì significa parlare di uno spazio comune, di una storia collettiva.

 

 

Sullo sfondo c’è lo scontro con la famiglia confinante, i Diakite, che da ottant’anni reclamano quella proprietà, ed ora grazie anche alla corruzione di un giudice sono riusciti a averla vinta. Contro la forza bruta della polizia, le sorelle coraggiose e resistenti mettono in scena un sit-in permanente di fronte al palazzo, e alla fine a vincere sarà la solidarietà della comunità, che coinvolge l’opinione pubblica, la stampa e il ministro della giustizia. Il tribunale sarà costretto a bloccare lo sfratto e il suo progetto di speculazione edilizia.

 

 

Le immagini diventano sempre più forti, dalla poesia si passa all’urgenza di raccontare e definire in «presa diretta». E disegnano un paese che vive una dialettica aperta, che fa fatica a crescere nonostante un umanità sempre più cosciente e un desiderio di libertà esempre più forte. Resistere probabilmente significa anche porre lo sguardo oltre, ricercare lo spazio umano in questo caos. Così Cissè continuamente svia da questa storia spostando l’occhio su i vecchi alberi, il canto degli uccelli, il rumore del vento, il fiume placido, i dolci sorrisi di chi ancora prova stupore davanti ad una macchina da presa.
È un film di educazione verso il bisogno di giustizia Oka (tradotto nel titolo internazionale come Our House, La nostra casa), in una terra come il Mali dove troppo spesso le tracce più antiche della cultura africana, e non solo per motivi religiosi, sono state distrutte.

 

 

La casa come possibile ridefinizione di uno spazio umano ed intimo, la stessa in cui Manoel de Oliveira nel suo film testamento ci invita per raccontarsi (Visita ou Memórias e Confissões), per aprire una finestra in divenire sullo ieri come sull’oggi, sulla vita prima che sul cinema. Muri per cui bisogna comunque lottare nella sensualità e fisicità di un cinema, quello sempre romantico e gioiosamente politico o di Cissè, che utilizza la memoria come un atto di indagine sul presente, e che si pone come spazio e tempo di lotta per la libertà. E attraverso il racconto di un’esperienza, la propria, ci restituisce il momento dello stare qui di tutti noi.