Le immagini terribili e brutali dei cittadini del mondo (perché chiamarli migranti?) che provano a sopravvivere ai conflitti e alla fame – cercando terra ed accoglienza – sono diventate serialità narrativa. Con il contorno della deformazione iperbolica dei dati reali (l’Italia ben al di sotto di altri paesi nelle richieste di asilo) e della strategia della paura, funzionale alle subculture xenofobe e fascistoidi. Queste ultime presenti sotto traccia, come un malanno endemico che riesplode quando le speranze e il futuro cedono il passo al noir.

Ne ha parlato con accurata argomentazione Mario Morcellini su l’Unità di domenica scorsa. Ma non basta. Ormai è la morte ad essere diventata un’immagine normale.

E sì, proprio la perdita della vita, che si tinge persino di propaganda ideologica quando fa politicamente comodo (ricordiamo l’amarissimo caso di Eluana Englaro, ad esempio), si svalorizza ad immagine prevedibile e minore: una mera sequenza mediatica.

Carrette del mare, gommoni, tir diventano «ubicazioni funzionali», per dirla con Foucault. Gli ammazzamenti dei terroristi dell’Isis o gli spari in diretta della Virginia appartengono alla sfera dell’orrore. Mentre i corpi di coloro che fuggono dai luoghi dove la morte è altrettanto incombente e persino più sicura sono comparse di una cerimonia funebre di routine. Che crea assuefazione e prepara lo spirito della guerra, quella nuova di cui varie volte ha parlato Papa Francesco.

Il cambiamento in corso della e nella geografia politica è il potenziale prologo di un allargamento esponenziale dei teatri del conflitto. Del resto, ciò che sta avvenendo è il frutto avvelenatissimo dei colossali errori dell’Occidente e dell’Europa: Iraq, Siria, Libia, Somalia, e così via. Il vecchio colionalismo degli stati nazionali e il passo imperiale degli Stati uniti hanno dato luogo al disastro, con la complicità dei ras locali. L’effetto è l’esodo ininterrotto di persone cui proprio la globalizzazione e l’informazione diffusa hanno dato l’opportunità di sognarsi cittadini del mondo: con il diritto alla felicità, previsto dalla Dichiarazione di indipendenza americana. Tra l’altro.

Adriano Fabris ha descritto recentemente il meccanismo della morte dorata, con gli assassini scoperti da sofisticati meccanismi tecnologici, cui ci rinviano fiction di successo sul filone criminale. Come Csi Miami indagato dal filosofo, ma il discorso si potrebbe allargare a numerosi tv-movie nei quali la morte è un gioco intellettuale ad uso e consumo di strabilianti intelligentissimi detective.

Così, con le dovute differenze, per serie cult come Gomorra, i Soprano o Romanzo criminale. Lì le efferatezze esorcizzano gli incubi e le ansie dell’immaginario collettivo. Qui, sui barconi e i camion, la morte è realistica. Naturale.

Ci si abitua a convivere con la brutalità, le nefandezze, gli omicidi collettivi, come è stato nelle stagioni devastanti delle persecuzioni e del terrore?

La mediatizzazione non stop senza critica prepara le condizioni culturali e psicologiche della Guerra. Non bastano le pur utili Carte scritte dagli organismi professionali e dal sindacato dei giornalisti. Certamente, etica, attenzione ai soggetti deboli e ai minori, rispetto dei corpi sono essenziali.

Il nodo, però, è tutto politico. La televisione deve diventare davvero adulta, facendo del dramma delle migrazioni il primo capitolo degli approfondimenti e dei talk. L’analisi rigorosa e la memoria storica sono cruciali, l’antidoto della malattia. Per carità, senza urlatori da share.