Una scrittura non più cinese e solo in parte americana, che non tollera appartenenze identitarie e trova nella saggezza narrativa la propria forza segna le pagine di Yiyun Li, nata a Pechino nel 1972 ed emigrata negli Stati Uniti quasi vent’anni fa, dove si è ricavata uno spazio importante proprio parlando, in lingua inglese, «della sua gente e del suo tempo», con uno stile saturo di psicologia raffinata e segnato da una sintassi esistenziale che la rendono assai diversa da ogni altro autore (cinese) contemporaneo.

La dialettica tra le origini della autrice e la sua tradizione letteraria (legata alla «diaspora» in Europa, in America e nel sudest asiatico) del tutto indipendente da una identità in termini rigidamente spaziali e linguistici, non scalfisce il nitore assoluto di un linguaggio narrativo apparentemente naturale eppure di grande intensità emotiva e riflessiva, che esula appunto da ogni definizione identitaria.

Nell’ultimo romanzo di Yiyun Li, Più gentile della solitudine (traduzione di Laura Noulian, Einaudi, pp. 319, euro 20,00), il personaggio di Ruyu definusce così lo spietato isolamento che si è costruita intorno: «Come poteva spiegare che essere sola – e non la proprietà di qualcuno – era l’unica cosa che avesse mai desiderato?»

E il personaggio di Moran, avvolta nella rete di bugie con cui sopperisce alla scarsa narratività della propria esistenza, è definito da queste parole: «Quelle storie non riguardavano lei. Non parlavano del suo tempo o della sua gente, eppure ciò che vi aveva trovato – l’evasione – aveva finito col diventare la sua saggezza».

Nel romanzo, i temi legati alla sofferenza e alla memoria sono scavati, meglio: incisi a piccoli colpi di cesello, nei destini incrociati di quattro giovani, tra la Cina del tragico anno zero, il giugno del 1989, la Cina dell’odierno successo economico e l’orizzonte americano. Un delitto fortuito o deliberato incrina per sempre questi destini, interrogando i protagonisti e il lettore stesso sul senso delle relazioni umane e della responsabilità di ciascuno nella vita altrui e, soprattutto, nella propria.

Sta forse proprio in quel disegno sagace e meticoloso delle personalità, dei tratti e dei tormenti interiori dei personaggi ciò che distingue Yiyun Li dagli scrittori della Cina, avvicinandola – senza del tutto identificarla – ai narratori americani.

A caratterizzare la sua scrittura difficilmente riducibile a determinazioni etniche è forse la minuziosa profondità dei suoi ritratti: l’intransigente autoalienazione di Ruyu, orfana cresciuta asetticamente da due prozie cristiane, la ribellione acerba e autolesionista di Shaoai, ambiziosa quanto inquieta studentessa universitaria, l’ingenuità tradita di Moran, appena quindicenne, in una Cina incerta e ruvida nelle sue disattese speranze di democrazia.

A queste figure di pungente sebbene silenziosa tragedia, si aggiunge Boyang, compagno di adolescenza rimasto in Cina dopo l’evento mai chiarito e funesto che ne ha per sempre mutato il carattere e la sorte. A distanza di vent’anni, immobiliarista di successo apparentemente integrato nella cinica e rapace società pechinese contemporanea, nasconde il medesimo senso di perdita tagliente che ha marchiato le amiche, oltre a un disprezzo equamente rivolto a sé e agli altri.

La Cina di oggi, che si specchia senza vedersi nella società americana dei tanti consumi e delle grandi possibilità, e l’abortita ipotesi di una via più plurale e libera al benessere economico, sono rese metaforicamente dal fallimento umano dei quattro personaggi; tuttavia, l’elemento sociologico e il fattore storico, pur decisivi, non marcano le analisi meditate di Yiyun Li, cui sembra interessare piuttosto – e sta qui la sua alterità rispetto alla scrittura della madrepatria – il tortuoso e insoluto mistero della natura umana, ripercorso con paziente profondità nei temi più alti intrecciati alla vita quotidiana: la fede, l’amore, il dolore, la morte, la solitudine. La ventennale prigionia di Shaoai nel proprio corpo contaminato infligge anche agli altri – Boyang in Cina, Ruyu e Moran emigrate negli Stati Uniti – una analoga segregazione nelle proprie anime.

Morte, malattia, solitudine sono fili grigi che uniscono tra loro i personaggi anche nello iato psico-spaziotemporale che li separa, nel loro presente, da una terra e da un passato di non-detti: in questo più vicina alla tradizione culturale cinese, Li riproduce emozioni e pensieri delle sue figure facendone emergere i vuoti piuttosto che i pieni, le ombre più della luce.

Aveva già affrontato con dolorosa precisione il tema dell’esclusione nei Girovaghi (Einaudi, 2010), potente romanzo su una comunità di diseredati sociali e politici alla fine del maoismo; qui, invece, assume una visione più equilibrata, resa lucida dalla distanza e dalla maturazione, in cui padroneggia con maggior forza i personaggi cinesi, sapendo tuttavia anche restituire con delicata ricettività le figure minori, di ambito americano.

Al centro della storia restano però solo i tre cinesi e l’ombra onnipresente dell’inferma che su di loro si proietta anche da morta: in netto contrasto con lo spirito americano del riscatto individuale a tutti concesso, le vite di questi personaggi restano fatalmente impigliate a un’impercettibile condanna, comminata non da una legge esterna e oggettiva, ma dalla soggettiva responsabilità cui ciascuno si sente inesorabilmente vincolato, negandosi per sempre, sin da quel terribile ‘89, una vita di relazioni aperte e piene.

La sensibilità introspettiva di Li irretisce, senza mai risultare invadente, portando a quella che Yeats aveva chiamato «fonda intimità del cuore», in un senso di privatezza, d’inaccessibile e tutelato spazio personale e psicologico la cui mancanza, nella Cina della propria infanzia e adolescenza, è stata spesso lamentata dalla scrittrice.

Il fluire del tempo, più in movimenti a spirale che in progressione lineare (altro elemento di sinicità), lega tra loro – nell’avvicendarsi delle diverse prospettive – eterogenei ma condivisi «mali di vivere», tra gli opposti esistenziali del distacco e della intimità, dell’amore e della solitudine. La ricerca dell’uno non fa che espandere a dismisura le dimensioni dell’altra: le scelte amorose di Boyang inaridiscono sulla superficie gelida della sua corazza interiore, la sete di corrispondenza emotiva che Moran, dopo averla invano coltivata da ragazza, smarrisce nel suo dolente rapporto con Josef rispecchia il rifiuto o l’incapacità che Ruyu prova nel tessere relazioni, perché «Sia l’intimità che il distacco richiedevano un impegno».

L’esperienza delle due donne negli Stati Uniti, in cui si alternano estraneità e accoglienza, una esperienza simboleggiata dalle incompiute vicende matrimoniali di entrambe, implica la necessità di riflettere sul tema dell’integrazione, che tuttavia va oltre le consuete dinamiche interculturali presenti nella letteratura sino-americana, alludendo piuttosto a un’indagine profonda, una ricerca etica sulla difficoltà intrinseca a una reale e mutua accettazione, con l’abbandono delle riserve identitarie, non tanto etniche quanto caratteriali.

Ma in tanta emarginazione psicologica indugia un lieve, forse ancor più crudele spiraglio, ciò che rende aspro e commovente il romanzo: se c’è egoismo in Boyang e nelle altre coprotagoniste, non è altro che l’egoismo di «qualcuno ostinato nel rifiuto di soffrire, ma non abbastanza cieco alle sofferenze altrui».