Come i tormentoni del vecchio «disco per l’estate», la vicenda dei compensi milionari della Rai ci accompagnerà come un nuovo scandalo al sole. Non c’è di che. Il comportamento dell’azienda è esecrabile, come è gravemente omissivo quello del governo (e dell’azionista di maggioranza, il partito democratico) che ha infranto la giurisprudenza costituzionale pur di conquistare il controllo dell’apparato.

Il tetto previsto dalla legge vigente di 240.000 euro all’anno (che un giovane precario di oggi non vede in tutta la vita semi-lavorativa) è superato da ben 94 giornalisti e manager del servizio pubblico. Che «pubblico» non sembra essere, se viola così impudentemente la moralità minima richiesta a chi ha a che fare con un bene comune.

Ora, dopo le dichiarazioni di circostanza, si attende che qualcuno provveda, a partire dalla commissione parlamentare di vigilanza, cui spetta il compito, attraverso gli strumenti regolamentari di cui dispone, di qualificare il significato (e il privilegio) della concessione dello stato. E lo stesso sottosegretario con delega sul settore Giacomelli non si limiti a divulgare gli esiti della consultazione sulla prossima, di concessione. Che ancora non si capisce se sarà accompagnata da una convenzione, che esisteva fino al Testo unico voluto dall’ex ministro Gasparri.

Insomma, la polemica sugli emolumenti che battono nettamente quelli della Bbc non rimanga una folata occasionale e neppure, però, diventi il pretesto per picconare il servizio pubblico evocando la chimera della privatizzazione. Come se non bastassero le esperienze passate o recenti. Si facciano rispettare, piuttosto, leggi e disposizioni.

Tanto per cominciare – e l’amministratore delegato Campo Dall’Orto potrebbe dare il buon esempio – si cominci con una sana autoregolamentazione. Al riguardo, sarebbe interessante capire se l’attuale consiglio di amministrazione è interessato alla gestione aziendale o fa da spettatore.

Tra l’altro, le dispute di questi giorni hanno tralasciato il fatto che, oltre all’entità degli emolumenti, è inevitabile rivedere la fisiologia della struttura. La proliferazione di ruoli e di «vice» anche quando non ve n’è alcun bisogno è una delle cause originarie della patologia.

Come pure lo sono il non utilizzo di coloro che vengono avvicendati o l’acquisizione dall’esterno di professionisti bravi ma forse non di più di numerosi colleghi interni. Su tale ultima distorsione pende, del resto, una valutazione dell’Autorità anticorruzione.

La verità occultata in tale temperie è semplice e tragica nello stesso tempo: una vera riforma non si è mai perseguita sul serio, salvo qualche generoso tentativo passato. Persino la revisione del numero delle testate – accorpate in due poli – voluta dal precedente vertice aziendale e accolta con benevolenza da diverse parti è rimasta lettera morta. Come sono state rimosse le varie ipotesi di ridefinizione del corpo dell’impresa, ormai desueto e lontano dalla velocità digitale della rete.

Non solo. La Rai si è organizzata come azienda «politica», con la rappresentazione inerziale di un sistema superato.

Ecco, dunque, la sfida, affinché la discussione sugli stipendi non rimanga una parentesi, figlia della giusta richiesta di trasparenza.

È urgente, insomma, riannodare i fili del dibattito sul senso di un servizio pubblico contemporaneo: sulla sua affidabilità, sulla sua credibilità. La reputazione è la pietra preziosa dell’epoca post-ideologica e della società dell’informazione. Sveglia.