Una mano con cinque dita perfettamente articolabili e in grado di maneggiare oggetti di piccole dimensioni, come una moneta o una forcina per capelli. Un polso ruotabile e snodato, capace di movimenti fluidi. Un avambraccio longilineo ma forte e robusto.

Descritto così potrebbe sembrare un modello estremamente avanzato di protesi biomeccanica.

Invece l’Hackberry è molto di più: un prototipo di quinta generazione di un arto cibernetico controllato tramite elettrodi e tecnologia a infrarossi, realizzato con una stampante 3D e gestito grazie a un software completamente open source. Un gioiello tecnologico che potrebbe portare a una rivoluzione in campo medico e sanitario, aiutando milioni di persone affette da disabilità, e fare al tempo stesso impallidire il più visionario appassionato di cyberpunk.

In effetti Genta Kondo, il trentenne giapponese che ha fondato e dirige la piccola ma agguerrita start-up Exiii, con sede a Tokyo, più che come un filantropo potrebbe essere descritto come un tecno-feticista degno erede di Case, il protagonista di «Neuromante» di William Gibson.

Ai numerosi giornali nipponici che lo hanno intervistato Kondo ha raccontato molto schiettamente che la sua impresa hi-tech e il suo innovativo progetto di protesi mioelettrica, ossia controllata tramite impulsi elettrici prodotti dal corpo umano, non sono nati dal desiderio di fare qualcosa di utile per gli altri ma dalla sua viscerale passione per la biomeccanica e lo studio del legame tra impulsi neurali e movimento.

Un amore esploso tra i macchinari dello Yokoi Lab dell’Università di Tokyo, centro specializzato in tecnologie robotiche per la riabilitazione fisica frequentato dal giovane ingegnere durante gli anni accademici, e poi coltivato come passione parallelamente al lavoro alla Sony.

La svolta è arrivata nel 2014, quando Kondo ha deciso di mollare tutto e dedicarsi allo sviluppo di un proprio progetto, quello di un braccio biomeccanico capace di emulare in tutto e per tutto i movimenti e le funzionalità di un normale arto umano. Solo a quel punto nella mente dell’imprenditore in erba la tecnologia ha cominciato a fondersi con la medicina per la riabilitazione.

Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità, le persone affette da disabilità da amputazione sono 1,5 ogni mille. Su una popolazione globale di 7,4 miliardi, i soggetti colpiti dal problema sono 11 milioni, il 30 per cento dei quali ha perso uno o entrambe le braccia.

Anche se non esistono dati ufficiali, la statistica fa supporre che una parte rilevante di queste persone viva in Asia.

Non a caso le stime previsionali realizzate dalla società di ricerche di mercato S&A Consulting Group indicano quello asiatico come il continente destinato a sperimentare il più intenso sviluppo del settore delle protesi biomeccaniche. Un comparto che l’anno scorso ha generato un giro d’affari complessivo di quasi 50 milioni di dollari, ancora limitato, ma suscettibile di una crescita esponenziale nel prossimo futuro.

La Exiii è entrata a piedi pari in questo mercato, proponendo un prototipo di protesi estremamente avanzata dal punto di vista tecnologico e incredibilmente economica.

L’uso di una stampante 3D e l’utilizzo di un software open source consentirebbero, secondo le stime del fondatore, di produrre un arto artificiale hi-tech a un costo compreso tra i 200 e i 300 dollari, mentre per analoghi apparecchi si possono anche superare i 10mila.

L’approccio della start-up nipponica, però, non è innovativo solo da un punto di vista tecnico.
Kondo punta a rivoluzionare il concetto stesso di protesi, facendo sì che le persone comincino a considerarle non più come dispositivi medici da tenere il più possibile nascosti per evitare disagio e imbarazzo, ma nella nuova frontiera delle tecnologie indossabili. Altro che Google Glasses o Google Watch.

Con il progresso della tecnologia, sostiene Kondo, il corpo umano stesso è destinato a trasformarsi ed «evolvere».

Per questo i prototipi della sua start-up sono braccia dalle tinte metalliche lontane dal colore della pelle umana, con un design volutamente robotico.

Progettate per fare in modo che l’avverbio «diversamente» associato alla parola «abile» divenga sinonimo di «maggiormente». E per essere «sfoggiate» come avviene con qualsiasi altro tecno-device di ultima generazione.