L’anno scorso si è celebrato l’anniversario degli ottant’anni dell’inaugurazione della stazione ferroviaria di Firenze. Ne parliamo ora perché solo adesso è disponibile la monografia che le è stata dedicata: La stazione di Firenze di Giovanni Michelucci e del Gruppo Toscano, 1932-1935 (Electa, pp. 143, euro 38). Il volume, curato da Roberto Duilio, raccoglie i contributi di Claudia Conforti, Marzia Marandola, Nadia Musumeci e Paola Ricco, e nasce per iniziativa della Fondazione Giovanni Michelucci che custodisce a Fiesole la documentazione d’archivio del progetto vincitore.

La stazione è, insieme a Sabaudia (inaugurata un anno prima), l’opera in assoluto più significativa del nostro movimento razionalista; meglio della città di nuova fondazione sorta nella «pianura redenta» dalla bonifica, rappresenta ciò che è stata la rivoluzione linguistica dell’architettura moderna.
L’opera giunge dopo una serie di residenze private eseguite tra la Toscana e Roma, e la partecipazione a esposizioni e concorsi e s’impone in modo coraggioso in un contesto intriso di antichi monumenti (chiesa di santa Maria Novella). Solo pochi anni prima, a Milano si era scelto per un’analoga destinazione un magniloquente contenitore storicista, dagli stravaganti lineamenti, che Rossana Bossaglia definì un «mix di Liberty assiro-babilonese» e decisamente stridente con l’ammodernamento tecnologico delle linee ferroviarie elettrificate allora in corso.

Il successo nell’opinione pubblica

A Firenze, al contrario di Milano, si decide in modo radicale per un volume che esalta la geometria, il rigore e la funzionalità. Raccontano le cronache che i fiorentini in un solo giorno si accalcarono a migliaia a Palazzo Vecchio per conoscere il progetto vincitore.
Come scrisse Giovanni Klaus Koening non fu «l’aspetto nuovo e sconcertante di quell’architettura razionale» che mosse un così gran numero di cittadini, «era l’architettura stessa che era di per sé sconvolta; era il suo spazio a essere scardinato dal suo interno». Lo storico torinese nella sua lucida analisi spiegò con semplicità quanto il razionalismo italiano fosse «prosa infiammata e battagliera», poco incline al lirismo e ansioso di rivoluzione anche se questa fu poi quella «abortita e rivolta all’indietro» del fascismo. Un fatto è certo: la stazione di santa Maria Novella si colloca come un episodio emblematico non solo dell’urgenza negli anni Trenta di un radicale cambiamento culturale nelle arti, ma anche il segno di un bisogno morale «di felicità e di speranza» che ancora sopravvive prima della discesa tragica dell’Italia in guerra e dell’involuzione retorica, classicista, dei «luoghi comuni» della romanità.

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Occorre insistere sull’intervento diretto dell’opinione pubblica fiorentina (ma anche di quella nazionale) anche se l’attenzione va posta alla «dichiarazione e augurio» di ventidue intellettuali tra personalità note come Primo Conti, Ottone Rosai, Giorgio de Chirico, Mario Marchi e altre meno, come il critico Berto Ricci o gli scrittori Raffaello Franchi e Fernando Agnoletti, determinati a promuovere un concorso nazionale sull’opera da realizzarsi, «un concorso fra giovani vertebrati» come scrisse puntuale Pier Maria Bardi.
Indirizzata ad Alessandro Pavolini, segretario federale del partito fascista fiorentino, la richiesta intendeva annullare prima di tutto i progetti che dal 1929 elaborò Angiolo Mazzoni in qualità di progettista del Ministero delle comunicazioni; in particolare quello del 1931, l’ultimo reso pubblico dai giornali e approvato con il plauso del ministro Costanzo Ciano e di Mussolini.

È questo che scatena per la sua «monumentalità» le critiche più feroci, in particolare quella dello scultore Romano Romanelli. Quando si decide per il concorso anche Mazzoni vi partecipa, addirittura con tre proposte: due saranno eliminate nei turni di selezione, la terza premiata al secondo posto ex-equo con i progetti di Bruno Ferrati, Cesare Pascoletti e Ettore Sottsass.
Mazzoni è la personalità che riveste un ruolo rilevante nella storia della stazione almeno per il fatto di avere eseguito molte sue parti e concluso nel 1934 l’edificio della centrale termica: un capolavoro dell’avanguardia futurista con le sue quattro ciminiere in metallo e la scala a chiocciola che si libra sul tetto su un volume di intonaco rosso scuro. Un segno radicale sui binari ben altro dal «calligrafico storicismo» del quale Mazzoni sapeva fornire prove concrete per assecondare la burocrazia del regime, sempre ambigua nei confronti della modernità. In giuria, come per altre occasioni, Marcello Piacentini svolgerà un ruolo centrale e insolito: è a favore del «progetto Michelucci» e stringe in un angolo i suoi oppositori (Ugo Ojetti e il direttore delle ferrovie Cesare Oddone).

Restyling e brutture

Il consenso che Michelucci riscontra con la stazione è il risultato di una combinazione di eventi unici e il frutto di relazioni sicure che l’architetto pistoiese instaura per tempo sia con il potere accademico (Piacentini) sia con quello politico (Pavolini). Questi avranno avuto anche le loro convenienze, ma hanno consentito che Michelucci – come dichiarò in una celebre intervista (1981) – si prendesse «gioco della fiorentinità»: «distruttore» di linguaggi, con la stazione, ancor prima che di città per mezzo di progetti che, come amava ricordare, vigili soprintendenti nel dopoguerra contrastassero impedendogli di «murare un mattone». Rivelò a Fabrizio Brunetti, l’intervistatore: «se si esclude la stazione di santa Maria Novella potei realizzare la mia prima costruzione fiorentina – la sede della Cassa di Risparmio – quando già avevo sessant’anni». È questa, forse, la vera ragione che rende l’architettura ferroviaria di Michelucci un unicum non solo rispetto al contesto culturale e storico di Firenze, ma anche all’interno della sua stessa produzione di architetto. In questo senso, la stazione non concede nulla alla retorica fascista che come riconoscerà lui stesso sarà il «marchio» che contrassegnerà i suoi due istituti di mineralogia e di biologia della Città universitaria di Roma (1942).

Giovanni Michelucci_Stazione Santa Maria Novella_vista aerea_cartolina postale
Roberto Papini, il critico che diresse a Roma la Scuola d’arte di via Monteverde dove l’architetto pistoiese dal 1920 insegna, recensendo la stazione su Illustrazione Italiana disse con sincerità di trovarsi davanti al «vuoto senza senso e senza stile» di coloro che ancora giustificavano in nome della storia e della tradizione «mille brutture, pretenziose e false» contrapponendosi alla novità dello stile razionalista.

Tuttavia è difficile non considerare come altrettante «brutture» le molteplici modificazioni che la stazione ha subito nel corso degli anni per giungere fino ad oggi con il radicale «restyling funzionale» di Grandi Stazioni: la società che si è assunta il compito di sfruttare a fini commerciali ogni spazio nelle più importanti stazioni ferroviarie italiane. In questa malasorte Firenze si ricongiunge in nome del massimo rendimento economico a Milano. Uno sciagurato destino accomuna le loro storiche stazioni ferroviarie: spazi pubblici di alto valore artistico ridotti a bazar la cui trasformazione nulla ha che vedere con la loro conservazione e valorizzazione, ma solo con il ciniche regole dello sregolato profitto e consumo.

 

SCHEDA

Giovanni MIchelucci_Fondazione
Sulle colline di Fiesole, la Fondazione Giovanni Michelucci guarda dall’alto la città del «mago» Brunelleschi. L’architetto pistoiese la costituì nel 1982, nove anni prima della sua morte. Vi aderirono per la costituzione la Regione Toscana, i comuni di Pistoia e Fiesole e nel 1999 Firenze: oggi soggetti silenti e distanti. Li, nella casa-studio sono conservati di Michelucci i suoi favolosi e frenetici disegni che la responsabile dell’archivio Nadia Musumeci si appresta a pubblicare in una nuova edizione. La particolarità della Fondazione non è solo l’attività di ricerca intorno i temi dell’architettura moderna, ma l’impegno verso la conoscenza dei «problemi delle strutture sociali, ospedali, carceri e scuole». La «città nuova» di Michelucci è un organismo vivo, dialettico, corale, mai autoritaria e dogmatica, la «città del dialogo» con il mondo degli esclusi, quella che dobbiamo ancora vedere realizzata.