I rischi paventati per la vittoria del No al referendum non si sono concretizzati.

Il primo impatto della sberla ricevuta dal governo italiano appare per certi versi normalizzante: spread in contrazione, Borsa in ripresa, titoli bancari in recupero.

Insomma, non solo non sono arrivate le cavallette, ma i primi dati che provengono dai mercati finanziari sono tranquillizzanti e rendono sempre meno credibili le campagne intimidatorie delle élite durante le votazioni. Ora occorre però non commettere l’errore opposto e sottovalutare i problemi.

La scorsa settimana in questa Rubrica si ragionava su come fossero le Eurodebolezze profonde a favorire principalmente movimenti di ordine speculativo intorno ai paesi periferici, Italia compresa.

Oggi, a referendum avvenuto, è bene riflettere sulle specifiche debolezze italiane, le quali rischiano di contribuire a far scivolare il paese lungo un pericoloso piano inclinato. Il panico post-referendum non vi è stato, ma è pur vero che almeno per la prima fase, quella in attesa di una soluzione politica (che per la verità non appare molto rassicurante comunque si risolva), i rischi del No erano già stati scontati dal mercato finanziario nelle settimane precedenti.

La ripresa è al di sotto delle attese, ferma allo zerovirgola e fanalino di coda in Europa; gli investimenti sono ancora lontani dai livelli del 2008 e gli unici in decisa crescita sono quelli all’estero; la produttività resta tra le più basse a livello continentale, registrando un aumento su base oraria negli ultimi 20 anni del solo 5%, e non certo per una riduzione dei tassi di sfruttamento della manodopera; l’inflazione resta al palo mentre le banche non tornano in modo adeguato a fornire credito e non riducono sostanzialmente i propri crediti deteriorati.

Quest’ultimo comparto vive una fase di fibrillante attesa, dove le operazioni di mercato non sono sufficienti per risolvere i problemi delle sofferenze e neppure per ricapitalizzare le banche che lo necessitano.

Il Fondo Atlante risulta insufficiente e il Monte dei Paschi di Siena fatica a raccogliere i 5 miliardi necessari per rafforzare la propria situazione patrimoniale. L’intervento dello Stato si fa sempre più concreto, seppur in forme lontane da una gestione pubblica.

Infine il debito sovrano in meno di 3 anni di governo Renzi è aumentato di quasi 150 miliardi, attestandosi stabilmente su una percentuale del Pil superiore al 132%.

Il problema vero, però, è che questa marea di dati poco incoraggianti vengono registrati dentro un’arco spazio-temporale artificialmente creato dalle politiche monetarie espansive della Bce. Lo scudo che fa della Banca centrale l’acquirente di ultima istanza dei titoli di Stato riesce a impedire una nuova precipitazione, ma non a invertire la rotta.

A ridosso del referendum, Draghi ha garantito il protagonismo di Francoforte per fronteggiare una crisi italiana. Ora viene prolungato il Quantitative easing, seppur non manchino difficoltà nella sua realizzazione, a partire dalla capacità di trovare titoli da poter acquistare.

Tant’è che del programma di acquisto si riduce l’ammontare, ma viene prolungata la durata. Con questa mossa implicitamente si esclude la fine dell’interventismo della Bce, ma al contempo Draghi chiede l’affiancamento delle famigerate riforme strutturali, benché in Italia ora appaiano semplicemente un miraggio (fortunatamente).

La politica manca di quel consenso necessario per corrispondere alle necessità sistemiche di una economia di mercato che non gira. Il keynesismo finanziario è condotto all’interno di una cornice fatta di regole iper-competitive e di austerità sociale. Lo scudo della moneta facile appare essenziale, il ritorno alla normalità impraticabile.

Per quanto ancora la droga monetaria consentirà di non guardare i fondamentali dell’economia? Quando il debito, i debiti, torneranno a far paura e si tornerà a ritenerli insostenibili?