Prima che questo pianeta di cui abusiamo divenisse un villaggio globale, spostarsi da est a ovest o viceversa era anche uno spostarsi nel tempo. Più precisamente, era un viaggio che implicava una nozione di tempo. Inseguendo il sole nella sua corsa verso l’orizzonte e verso il tramonto si procedeva nel futuro, si entrava nel moderno. Il cammino inverso comportava un ristagno nell’antico. In questa geografia del tempo e della storia, modernizzare il mondo significava in sostanza occidentalizzarlo. Era, ovviamente, una rappresentazione di parte, tutta occidentale e per molti versi falsa, ma è questa la rappresentazione con la quale l’Oriente ha dovuto fare i conti, a cominciare dalla città posta esattamente nel mezzo dei due mondi: Istanbul, la porta d’Oriente affacciata sul moderno.

Proprio per via della sua particolare posizione, Istanbul e la Turchia hanno affrontato il problema in maniera unica: contrariamente alla quasi totalità dei paesi non occidentali, la Turchia non si è vista imporre la modernità dall’esterno; l’ha cercata e se l’è imposta, sebbene attraverso un processo lungo e non privo di contrasti e ambiguità iniziato quando ancora sopravviveva l’Impero Ottomano, nel mezzo dell’Ottocento, e proseguito nel secolo seguente fino alla svolta decisiva del 1923, la nascita della repubblica turca. Dal dibattito che nei decenni ha opposto riformisti e difensori è discesa una vasta letteratura, in cima alla quale sta L’istituto per la regolazione degli orologi. Pubblicato a puntate nel 1954 e ristampato in volume otto anni dopo, questo importante testo del Novecento giunge adesso a noi grazie alla traduzione di Fabio Salomoni (Einaudi, prefazione di Andrea Bajani, pp. 448, euro 22,00) e al sostegno di Orhan Pamuk, che ha definito l’autore, Ahmet Hamdi Tanpinar, la figurapiù importante della letteratura turca moderna.

Il contrasto tra Occidente e Oriente trova in questo romanzo un’allegorica e satirica esemplificazione centrata proprio sull’impossibilità di conciliare le opposte nozioni di tempo sviluppatesi nei due mondi. Stando a quanto sostiene Hayri Irdal, che di questo libro è voce narrante e protagonista, tra i clienti degli orologiai europei i migliori sono sempre stati i musulmani e, tra questi, i più fedeli di tutti erano proprio i turchi. L’interesse per un’esatta misurazione del tempo derivava dal bisogno di regolare una vita religiosa scandita da una gran varietà di rituali e ben cinque preghiere quotidiane. L’orologio era dunque uno strumento religioso, «il modo più sicuro per arrivare a Dio», all’universale. Di segno decisamente più secolare appariva invece la tendenza occidentale a ingabbiare il tempo in qualcosa di razionale, una segmentazione del flusso indistinto delle cose, un’idea che fosse espressione di una società sempre più meccanizzata e votata al profitto, una società dove il tempo, anziché scorrere, non andava perduto.

Nel romanzo, queste due opposte visioni vengono incarnate da due diversi personaggi. Da un lato Nuri Efendi, un orologiaio del vecchio mondo, un uomo a metà tra il santo e il grande scienziato, per nulla interessato al denaro e mosso da un amore per gli orologi rotti simile a quello che può provare un’anima caritatevole per i malati e i bisognosi. Dall’altro, Halit il Regolatore, l’innovatore che si propone di importare in Turchia la filosofia capitalista attraverso la fondazione dell’istituto che dà il titolo al romanzo.

L’esistenza del protagonista oscilla tra questi due poli. Il primo entra nella vita di Hayri Irdal quando questi è ancora molto giovane e sa poco o nulla del mondo. Il secondo si palesa in una fase più avanzata, quando Irdal, ormai sposato e uomo fatto, ha perso ogni speranza e si convince di essere giunto al capolinea. Il primo viene descritto come un maestro di vita, un custode di antichi valori; il secondo è invece presentato come un benefattore o, meglio ancora, un soccorritore, malgrado le sue strambe idee vengano illustrate dalla voce narrante con una punta di scetticismo.

Del resto, Irdal, il nostro eroe, è un tipico eroe moderno: un essere ambiguo, oltre che privo di qualità degne di nota. Nasce a Istanbul, sul finire dell’Ottocento, in una famiglia decaduta. Cresciuto in una casa ingombra di oggetti che avrebbero dovuto arredare una moschea mai costruita, abbandona la scuola per via del suo scarso interesse per lo studio e si ritrova a frequentare il laboratorio di Nuri Efendi. Qui conosce una nutrita schiera di adulti che gli fanno da tutori, tra cui un aristocratico che gli offre in sposa la figlia e dunque una soluzione ai suoi problemi finanziari.

La vita di Irdal è però destinata a complicarsi: subisce un tracollo nervoso, perde la moglie, si dimentica di avere due figli, entra a far parte di un’associazione di spiritisti dove incontra la futura consorte, una giovane di nome Pazike a tal appunto affascinata dai divi del cinema americano da confondere la realtà con un film. Arriva quindi la svolta, l’incontro con Halit il Regolatore, che viene presentato a Irdal da un altro importatore della modernità, un certo dottor Ramiz, psichiatra convinto che la sua branca medica possa risolvere i problemi dell’intera nazione. Halit vede in Irdal il candidato ideale per un posto da dirigente nell’impresa in cui sta per lanciarsi: inculcare nei cittadini della neonata repubblica turca una nozione moderna di tempo. Perché ciò sia possibile è necessario che l’orologio di ogni cittadino sia regolato con un orologio di riferimento. I trasgressori verranno puniti con sanzioni il cui calcolo non è meno perverso delle finalità che l’istituito si prefigge di raggiungere.

Nella follia di questo ente inutile – una macchina celibe che non sfigurerebbe in un’opera di Ionesco – c’è tuttavia del metodo. L’ansia regolatrice di Halit pare difatti il riflesso di quella spazializzazione del tempo che Walter Benjamin (pensando probabilmente a Bergson) riconosceva come una delle caratteristiche idiosincratiche della modernità. Il romanzo ne offre un’immagine efficace quando il protagonista, descrivendo la casa in cui è cresciuto, si sofferma su un orologio «laico» dotato di un cucú speciale che scattava ogni ora intonando un’aria all’epoca molto in voga. «Con la comparsa della radio, questi orologi sono completamente spariti e, francamente, li preferivo di gran lunga» dice Irdal, aggiungendo senza mezzi termini che «la radio è un’invenzione ignobile». Lo è perché «non serve nient’altro che a inculcare passioni inutili negli esseri umani», a fare entrare nelle case delle persone eventi che si svolgono altrove e in un altro tempo: «Anch’io, arrivato a quest’età, invece di lavorare rimango per ore davanti alla radio ad ascoltare le cronache di partite di calcio e combattimenti di boxe ai quali non ho mai assistito». Per giunta, a simili mondi estranei si è esposti sempre, anche se si spegne la radio, perché in qualunque momento, attraverso una parete o da una finestra, può giungere il suono dell’apparecchio di un vicino.

Spazializzare il tempo significa dunque questo: trasformarlo in un luogo astratto nel quale tutti possano vivere simultaneamente, un tempo organizzato, razionalizzato, segmentato in una successione di date e ore, un artificio che scambiamo per il tempo vero, per il flusso delle cose, per quella che Bergson (e Tanpinar è in tutta evidenza un bergsoniano) è la durata.

L’istituto della regolazione degli orologi non si ferma tuttavia a una mera critica alla modernità. È piuttosto un affascinante e ambiguo romanzo di deformazione. Malgrado l’iniziale scetticismo, Irdal finirà infatti per adeguarsi, lasciandosi corrompere dall’idea di mondo che Halit vuole imporre al suo paese. Lo farà soltanto in parte e per convenienza, ma lo farà, perdendo la propria identità. D’altra parte, come egli stesso finirà per ammettere, «chi si assume la responsabilità di un lavoro, per quanto stupido o assurdo, che lo voglia o no, non esce più dal proprio spazio e ne resta prigioniero. Il grande mistero del destino dell’uomo e della storia sta tutto lì».