È un fenomeno ricorrente nella storia d’Italia. Il paese è complesso. È articolato territorialmente e socialmente. Ha una storia complicata, che ha lasciato strascichi imponenti, che l’unificazione non poteva cancellare. Col tempo si sono prodotte articolazioni ulteriori e da sempre è stato problematico il funzionamento delle istituzioni che solitamente reggono le società moderne. Cioè quello che possiamo sinteticamente indicare come il governo rappresentativo.

Laborioso fu il funzionamento del parlamentarismo postunitario, fino al suo collasso che condusse al fascismo. E laborioso è stato il funzionamento della democrazia dei partiti, istituita nel dopoguerra. Sicuramente non priva di costi, tale laboriosità ha dato origine a una lunga sequela di tentativi di drastica semplificazione, magari evocando felici modelli stranieri.

Quel che si dimentica è che ogni paese ha i suoi problemi. Che il pluralismo è ovunque difficile da governare. E che sono a dir poco caricaturali talune rappresentazioni idilliache della storia inglese, francese, tedesca, americana, di cui si compiace la polemica politica, ma che gli studiosi seri rifiutano (ma ci sono pure quelli non seri che attivamente partecipano alla polemica politica!). Sta di fatto che ciclicamente in Italia compare qualche attore politico che nutre l’ambizione di ridisegnare la forma di governo e di redimere d’un colpo il paese dei suoi difetti.

Tra i suddetti tentativi, oggi diremmo di “riformare”, il primo effettuato su vasta scala fu quello di Francesco Crispi. Il quale negli anni ’80 del XIX secolo, preso Bismarck a modello e condotta un’intensa campagna nazionalistica, nutrita di velleità coloniali, immaginò di introdurre un regime di cancellierato, mettendo in ombra la sua ben più apprezzabile ambizione di promuovere vaste riforme sociali anche di segno democratico.
Il tentativo, com’è noto, finì malissimo, tra scandali, sanguinosi eccessi repressivi e la sconfitta di Adua, segnando in negativo la figura di uno dei protagonisti del Risorgimento. Se però Crispi fallì, stabilì in compenso un precedente, dato che la sindrome crispina si è più volte ripresentata: a fine XIX secolo, al momento dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale, col fascismo.

Allora l’involuzione autoritaria ebbe pieno successo. Questo è forse il più vero bipartitismo italiano: governo rappresentativo macchinoso da un canto, sindrome crispina dall’altro.

In realtà, le forzature antidemocratiche vantano un solo successo: il fascismo, che riuscì a rimuovere il governo rappresentativo per un lungo ventennio, con conseguenze a dir poco tragiche. Che non sono tuttavia bastate a guarire una volta per tutte la sindrome crispina. Nella vicenda repubblicana essa è riapparsa più volte: ai tempi di De Lorenzo, con le mene della P2, ovviamente col craxismo.

Anzi, da Craxi in poi la sindrome crispina non ha dato più tregua alla democrazia repubblicana. Ci ha riprovato in particolare e con discreto zelo Berlusconi, trovando però un ostacolo insormontabile nelle istituzioni di garanzia, nella corte costituzionale, nella presidenza della Repubblica, nei partiti di opposizione, perfino nella sue propensioni affaristiche, che hanno reso quanto meno sgangherata la sua azione in tutti i campi.

Adesso è venuto il tempo di Renzi, il quale, vantando un illusorio 40 per cento di consensi elettorali (non ha votato nemmeno il 60 per cento), cerca un diversivo ai dati deprimenti sulla crescita e sull’occupazione. A tal fine vuole a ogni costo liberarsi del Senato e adottare una legge elettorale che, con il suo indecente premio di maggioranza a chi arriva al 37 per cento e le sue non meno indecenti soglie di accesso, non ha eguali in alcuna democrazia degna di questo nome. Tutto ciò con la complicità del leader – dimezzato e squalificato da una condanna penale – dell’opposizione e il silenzio, tramortito, di gran parte del suo stesso partito. Torna dunque la sindrome crispina, mentre sul Quirinale, finora attentissimo ai destini del paese e alla buona salute della democrazia, aleggia il fantasma di Vittorio Emanuele III.