In questi giorni è in sala un magnifico film che merita di essere scovato in quei circuiti «altri» che stanno diventando sempre più un’alternativa all’uniformità dominante. Si chiama La memoria dell’acqua – in spagnolo El Boton de Nàcar – il regista è Patricio Guzman, cileno che ha vissuto in prima persona l’atroce trauma della dittatura di Pinochet e dell’esilio, e nei suoi film, sin dai primi (La battaglia del Cile, 1976) continua con un’ostinazione commuovente, a opporre alla memoria fallace una Storia fatta di connessioni, che riguarda quel passaggio e altri ancora prima. E al tempo stesso attraverso la sua ricerca interroga a ogni film il suo fare cinema.

 

 

Guardando in macchina Gabriela alla domanda come si dice «dio» nella sua lingua, dopo breve esitazione risponde che questa parola non c’è. E polizia? Nemmeno. Gabriela è una delle venti sopravvissute del «Popolo del sud», i Selknams, le tribù native che abitavano la Patagonia e che il colonialismo (missioni cattoliche comprese) ha distrutto:gli ha tolto le terre, li ha costretti a vestire abiti occidentali, li ha condannati e chiamati «mostri» nei racconti che sono stati scritti solo da colonizzatori. Gli ha dato la caccia e li ha fatti a pezzi vendendo i loro corpi, gli ha tolto la lingua e la dignità. Uccisi da miseria, malattie, dall’alcol distribuito con astuzia sono scomparsi.

 

 

 

 

Li chiamavano anche il popolo dell’acqua, della loro sapienza antica, profondamente legata al cosmo, restano tracce nei disegni e nelle pietre che fabbricavano. Le canzoni risuonavano nel corso dei fiumi e nel tuffo delle cascate, eco di una terra che ha migliaia di chilometri di costa e di isole dove la violenza si mescola alla bellezza.

 

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Dall’acqua era affiorato anche un vecchio «bottone di perla» – il titolo originale del film – che la ruggine ha incrostato in fondo al mare. Forse era cucito sui vestiti di qualcuno torturato e desaparecido a Villa Grimaldi dove il regime inghiottiva i suoi prigionieri.

 

 

 

 

Guzman prosegue la composizione di una personalissima cartografia attraverso la quale narrare la Storia già tracciata nel precedente Nostalgia de la luz. Lì era il deserto di Atacama, qui sono l’acqua e i ghiacciai della Patagonia, l’oceano solcato dalle navi dei conquistatori dove la dittatura di Pinochet ha gettato i corpi dei dissidenti, tutti quelli che avevano creduto nel cambiamento di Allende. Il programma comprendeva anche la restituzione della terra ai nativi, una cosa per la quale in alcuni paesi dell’America latina ancora oggi si può morire.

 

 

Racconta il regista che l’analogia tra lo sterminio degli indios e i massacri di Pinochet gli è stata suggerita dalla visita al museo di Punta Arenas dove per la prima volta ha scoperto la figura di Jemmy Button, l’indio che aveva accettato di partire per la lontanissima Inghilterra (un po’ come Pocahontas) in cambio proprio di un bottone di perle. Ai coloni inglesi ne era bastata una manciata per prendere le terre agli indios, e Button, entrato nella leggenda, aveva viaggiato attraverso i mari e i secoli ed era divenuto un inglese. Poi lo avevano portato di nuovo nella sua terra ma lui, anche se aveva fatto crescere barba e baffi, non poteva essere più quello di prima.

 

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L’altra suggestione gli è arrivata andando a Villa Grimaldi, dove ha visto le corde con cui legavano i prigionieri prima di gettarli nell’Oceano. Anche lì c’era un bottone … E tra questi due bottoni il film tende la sua narrazione, ci dice di uno sterminio senza fine restituendo un’immagine a una visione del mondo scintillante, concepita da uomini (nelle fotografie allucinate di Martin Gusinde) convinti che i morti si trasformino in stelle. A cui si aggiungono i ricordi di qualche sopravvissuto come Cristina Calderon, ultima rappresentante dell’etnia Yagan, di un filosofo, Gabriel Salazar, di un poeta, Raul Zurita, di un artista Emma Malig. Le testimonianze di chi è scampato a Pinochet, delle famiglie di chi invece non c’è più, che cercano ancora nella «memoria dell’acqua», che si dice trattenga i ricordi di ciò cui viene a contatto, i resti dei loro cari.

 

 

Cosa ci dice dunque l’investigazione del regista? Che un paese nato dallo sterminio del colonialismo non poteva avere una sorte felice, e a distanza di secoli sull’isola di Dawson nella quale avevano deportato i nativi imprigioneranno i dissidenti per eliminarli. Coincidenze o ritorni ineluttabili? L’andamento è semplice, quasi didattico, e se Nostalgia de la luz insisteva più sul tono saggistico, La memoria dell’acqua segue un movimento più emotivo seppure secco, senza cedimenti retorici. Ogni frammento si incastra con l’altro e risponde alla necessità del regista: che è quella di non cedere al presente, di continuare a cercare risposte a un passato rimasto sospeso, fluttuante, senza una consapevole assunzione di responsabilità.