Contrariamente a ciò che sembra evidente e logico, non abbiamo paura degli eventi naturali catastrofici in sé, ma dell’impotenza psichica che essi possono indurre.

Ci spaventa la dissoluzione del senso della nostra esistenza, lo sprofondamento in uno stato di insensatezza in cui siamo totalmente incapaci di legare psichicamente, dando loro organizzazione e significato, le percezioni e le sollecitazioni che vengono dal nostro interno e dall’ambiente esterno. La paura della morte è in realtà paura di perdere il nostro stato di esseri significanti e significativi, cadere nello zero assoluto della significazione.

Il terrore che un evento naturale può provocare, diventa meraviglia se possiamo osservarlo in condizioni di sicurezza. Il senso di onnipotenza psichica (reattivo all’impotenza) può portare a sfidare la morte. La stessa cosa accade quando alla propria morte si riesce a dare un significato (tema molto presente nel sacrificio per una causa).

Questi tre elementi (inclusa una sopravvalutazione della distanza di sicurezza) sono presenti nella morte di Plinio il vecchio mentre osservava la distruzione di Pompei durante la più famosa delle eruzioni di Vesuvio.

Tra gli eventi naturali il terremoto, per l’istantaneità del suo incombere e l’impossibilità di affrontarlo, è forse il più terrificante. Esperirlo sfocia in due reazioni opposte, seppur obbedienti allo stesso imperativo. La necessità di ritorno a uno stato di coesione, stabilità psichica. La reazione di panico si scatena per motivi psichici individuali, che impediscono una risposta adeguata al problema, o per l’impossibilità di una via d’uscita reale.

Nella sua incongruenza ha, nondimeno, una funzione di stabilizzazione psichica reale: compatta l’apparato psichico su una posizione di fuga, che, pur improbabile e disastrosa, restituisce, temporaneamente, un senso al proprio esistere. In condizioni più favorevoli, la psiche si compatta su una posizione «operativa»: entrando in uno stato di relativa anestesia emotiva, privilegia l’agire secondo informazioni e schemi acquisiti in precedenza, alla ricerca di una via di salvezza affidabile.

Questo agire, in qualche modo automatico, corrisponde a un funzionamento psichico che segue un modello di «risparmio»: ogni elemento inessenziale dell’attività di rappresentazione ideativa e affettiva di sé e del mondo è messo ai margini. La complessità della significazione dell’esperienza è temporaneamente sospesa per preservarla per il futuro.

Chi ha esperito per la prima volta un terremoto, uscendone vivo, sa che la reazione immediata non è una paura viva del pericolo, ma uno sgomento vicino all’aporia, un’incertezza tra la realtà di ciò che accade e il sogno. La paura viene con le esperienze di scosse successive, quando l’apparato psichico ha registrato e significato l’evento.

La prima reazione emotiva che emerge dallo sgomento è il dispiacere di non vedere più le persone care e di non essere più visti da loro. Alla sua radice (nel fondamento di tutte le nostre fragilità e sicurezze), questo sentimento di perdita ha il suo riferimento nella madre, nel rapporto primario con lei.

L’identificazione della madre con la terra e il tema dell’insolubile legame con loro, sono universali. Gli antichi greci interpretavano i sogni erotici di incesto con la madre nel senso di due possibilità opposte: conquista di suolo (radicamento solido di un proprio spazio nella vita) o presagio di morte.

Si potrebbe portare la loro intuizione nella sua più coerente conclusione: è l’elaborazione della perdita, della morte (l’acquisizione costruttiva del fatto che nulla si preserva identico per sempre) che consente di preservare il senso della tradizione (le radici dell’albero in cui si è seduti) e fondare il senso di discontinuità dell’esistenza nel senso della sua permanenza, continuità.

Il terremoto ci mostra come il terreno in cui poggia il nostro senso dell’esistenza può tremare per motivi estranei alla nostra volontà. È una metafora potente della nostra precarietà, caducità che può essere risolta nel senso della rassegnazione/consolazione o nel senso del lutto: un vivere in presenza della morte, che non è prepararsi ad essa («vivere per la morte»), ma convertirla in esperienza di perdita trasformativa.

Perdiamo gli altri come siamo perduti da loro, essi vivono in noi, come noi viviamo in loro. Coloro che ci precedono e coloro che ci succedono.

Il significato della nostra vita è esteso al di là dei nostri confini e del nostro tempo. Oltrepassa per ognuno la propria morte, vive nelle relazioni umane, dove il particolare incontra l’universale ed espande l’esperienza del singolo essere umano nell’eternità.

Possiamo affrontare la tragedia del terremoto con belle parole di consolazione (apri-strada inconsapevole allo sciacallaggio e alla speculazione) o usare la necessità di ricostruire come elaborazione del lutto, l’unica vera forza trasformativa. Far diventare la potenza puramente distruttiva un’occasione ricostruttiva, innovativa per noi.