Dopo sei mesi di massacri, l’occidente d’improvviso ricorda che esiste all’Aja un’altra Corte, terza e imparziale, che processa e giudica i più gravi crimini internazionali commessi da individui, inclusi capi di stato e di governo. Strana amnesia, visto che da poco la Corte è stata proprio dai paesi occidentali (e giustamente) applaudita e supportata per le indagini contro i crimini russi in Ucraina e per l’emissione del mandato d’arresto contro Putin, che al pari di Netanyahu governa uno stato che non è parte del sistema della Cpi, per crimini di guerra.

I crimini internazionali sono considerati tali in quanto lesivi di beni giuridici talmente fondamentali da corrispondere ai valori istitutivi della comunità internazionale. Si tratta di crimini che per l’ordinamento giuridico internazionale non si possono non punire.

La storia del diritto internazionale penale annovera monumentali giuristi ebrei tra i propri padri fondatori: da Raphael Lemkin, inventore del concetto di genocidio, fino a Benjamin Ferencz, il giovane procuratore che inchiodò Ohlendorf a Norimberga e che divenne infaticabile attivista per la giustizia penale internazionale.

INSIEME a loro, grandi giuristi italiani, da Giuliano Vassalli ad Antonio Cassese, che al «mai più» del secondo dopoguerra contribuirono a dare struttura giuridica e operativa, fino alla redazione e approvazione a Roma del trattato che istituisce la Corte penale internazionale: lo Statuto di Roma. Proprio nella sua città natale, questo trattato – di cui l’Italia è parte – rimane uno sconosciuto. Il governo Meloni non ha mai nominato la Corte penale internazionale e, soprattutto, non ha riferito la situazione in Palestina alla Corte stessa.

L’uso di questo strumento istituzionale di denuncia sarebbe stato il minimo dovuto per fare giustizia (che è il contrario di fare sterminio) proprio per quei crimini, visto che la Corte ha giurisdizione e indaga non solo su condotte da parte israeliana a Gaza e in Cisgiordania, ma anche su quelle dei gruppi armati palestinesi in territorio israeliano. Inazione assoluta del governo in merito, quindi, ma – incredibilmente – nessuna richiesta nemmeno dalle opposizioni.

Tragico, dal punto di vista della statura internazionale dell’Italia, ormai una miniatura, ma poco male dal punto di vista dell’azione della Corte, avviata da tempo ad accertare responsabilità gravissime.

È dal 2009 che la Palestina chiede alla Cpi aiuto sui numerosi crimini internazionali commessi sul proprio territorio (o da propri cittadini in territorio altrui), avendone dapprima accettato la giurisdizione e poi ratificato lo Statuto. A partire da allora, le mobilitazioni israeliane volte a negare che la Corte avesse competenza sono state innumerevoli, tanto nella sfera politica, che in quella accademica. Sono però valse a poco.

Dopo una lunga indagine preliminare, con due storiche decisioni del 2021, i giudici dell’Aja hanno confermato la giurisdizione della Corte e autorizzato l’indagine vera e propria, con competenza sui probabili crimini commessi a partire dal 2014. Sono quindi i giudici della Cpi ad aver stabilito che la scia di crimini internazionali di questo conflitto non comincia il 7 ottobre e che, al contrario, sono almeno 10 anni che si susseguono.

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Nella sola operazione militare del 2014, a Gaza furono uccisi 1.462 civili, tra cui 551 bambini e 299 donne. In occasioni della Grande Marcia del Ritorno, nel 2018, 214 palestinesi disarmati furono uccisi, inclusi 46 bambini.

NELLA DEVIANZA antigiuridica del dibattito italiano su Palestina e Israele, tuttavia, aleggia un pre-illuministico silete iudices in munere alieno, in cui la parola del diritto e delle corti internazionali è non solo ignota, ma impronunciabile di fronte alla forza delle armi degli alleati e dei rispettivi crimini. Di conseguenza, poco o nulla si è detto sul fatto che da novembre 2023 la Procura della Corte ha reso noto di aver accelerato le indagini.

Da due settimane si rincorrono voci di imminenti mandati d’arresto per membri dell’esecutivo israeliano, incluso Netanyahu, sia per crimni di guerra, che per crimini contro l’umanità. Le voci trapelano però dallo stesso governo israeliano, che o è a conoscenza di elementi di cui non dovrebbe essere a conoscenza, o coglie l’occasione per spingere i propri alleati contro la legalità internazionale, scagliando i soliti anatemi rituali e da copione: fin dalla decisione dei giudici del 2021, infatti, Netanyahu accusa la Cpi di «puro antisemitismo» (la Corte si aggiunge quindi alla lista interminabile di stati, organizzazioni, tribunali e istituzioni internazionali destinatarie della stessa accusa).

L’ultima novità di questa crociata contro la Corte da parte dei soliti sospetti, a difesa della propria impunità, è la riportata minaccia di ritorsioni sull’Autorità palestinese, fino al suo smantellamento, qualora i mandati raggiungano i destinatari israeliani. Difficile immaginare una minaccia più favorevole al conseguente predominio di Hamas.

Ma soprattutto, difficile immaginare coma si possa ulteriormente smantellare una Anp ridotta da Israele a un pugno di sindaci con qualche residua competenza amministrativa su bantustan annessi militarmente e controllati di fatto dai ministri espressione del movimento dei coloni (in Cisgiordania sono quasi 500 i palestinesi uccisi, inclusi 124 bambini, solo dal 7 ottobre).

Accanto a Blinken, il presidente Herzog ha dichiarato che l’azione della Cpi contro leader israeliani rappresenta una «minaccia contro il mondo democratico». L’amministrazione Usa, intanto (che ha ancora norme domestiche che autorizzano all’uso della forza armata contro la Corte – il cd. Hague Invasion Act), dichiara alla stampa che ritiene la Cpi priva di giurisdizione sulla situazione.

Con un balzo farsesco che supera l’ipocrisia, gli Stati uniti affermano quindi che le stesse norme di cui esigono il rispetto contro i crimini russi…non valgono per i crimini israeliani. Sono norme intermittenti. Anzi, a intermittenza simultanea. Si spengono e si accendono allo stesso tempo, a seconda degli attori.

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GLI ALLEATI sarebbero quindi legibus soluti. È il diritto internazionale del nemico al suo apice, che salda la postmodernità ai profili più medievali del mondo premoderno. Si teorizza, in fondo, che se è una democrazia a commettere crimini di atrocità, ciò non sottrae a essa né superiorità morale, né il diritto a farne politiche statali. Addirittura il nemico diventa chi solleva i parametri giuridici universali che esigono rispetto indipendentemente da chi li calpesti.

La legalità e l’eguaglianza formale di fronte alla legge evidentemente non sono un valore, hanno perso la propria funzione identificativa degli ordini giuridici democratico-liberali. I diritti umani sono un valore universale, ma a Mosca o a Teheran, non certo nei campus americani. La stampa deve essere libera, ma a Pechino, mentre a Gaza la libertà è di eliminare fisicamente la stampa. I crimini di guerra e contro l’umanità sono barbarie, ma vanno processati solo quando commessi dalla tribù avversaria, giammai quando commessi dalla tribù democratica. Insomma, una concezione tribale e tribalizzante delle democrazie e dell’occidente.

Della tradizione illuministico-liberale che le ha fondate, questo tribalismo delle democrazie dimentica e capovolge quasi tutto, valorizzando invece nazionalismo da primi del Novecento e colonialismo ottocentesco.

Quando si intima di accettare di buon grado, nel grande abbraccio della tribù delle democrazie, le fosse comuni di Gaza e i corpi di 15mila bambini e 10mila donne palestinesi, allora vuol dire che il tribalismo etno-nazionalistico e genocida di Ben Gvir e Smotrich si è fatto «occidente».

Sarebbe troppo chiedere a dei mandati d’arresto di raddrizzare un capovolgimento epocale di tale portata. Ma l’occidente, o ciò che ne resta, ha senz’altro tutto da guadagnare e nulla da perdere dall’emissione ed esecuzione dei mandati stessi. Gli unici sconfitti saranno i criminali internazionali che li meritano, e i presunti liberali che si sono battuti per la loro impunità.