Gli Stati uniti sembrano un gigantesco contenitore di dinamite pronto a esplodere. E non solo per la tensione sociale successiva alla strage di Dallas, di Baton Rouge ma anche per il peso mediatico sulla corsa alla Casa Bianca, con Donald Trump trionfatore alla convention repubblicana di Cleveland, in attesa di quella democratica, al via tra tre giorni a Philadelphia. Poi ci si mettono anche gli stati, con leggi controverse, in questo caso omofobe, come la House Bill 2, nota anche come HB2 o Bathroom Bill, approvata qualche settimana fa in North Carolina, che obbliga le persone transgender a utilizzare i servizi igienici e spogliatoi pubblici appartenenti al sesso che compare sul loro certificato di nascita, non tenendo conto dell’identità di genere.

Per questo motivo la Nba, la Lega professionistica di basket, ha deciso di sfilare a Charlotte, North Carolina, l’organizzazione dell’All Star Game 2017, la partita delle stelle, in pratica il biglietto da visita del basket nazionale in tutto il mondo, con miliardi di appassionati incollati alla tv. Secondo la Nba la normativa è discriminatoria verso la comunità lgbt.

E dopo settimane di appelli, di inviti della Lega, della franchigia di casa, gli Charlotte Hornets (Michael Jordan, il più grande cestista di tutti i tempi è azionista di maggioranza della società), degli atleti più rappresentativi a metter mano al provvedimento, senza ottenere ascolto dal governatore Pat McCrory, che ha approvato la legge promossa dal parlamento dello stato, è arrivata la decisione, scontata ma dal peso specifico notevole. La Lega di basket e in generale lo sport è stato infatti affiancata da personaggi che spostano parecchio negli Stati uniti come Bruce Springsteen, che ha cancellato un concerto in North Carolina (e come lui Bon Jovi e Bryan Adams).

E hanno manifestato disappunto anche multinazionali come PayPal e Deutsche Bank che hanno fermato la loro espansione in North Carolina. La scelta della Nba, appellatasi all’accettazione delle diversità, all’inclusione, equità e rispetto per gli altri, porterà altrove il carrozzone All Star Game, che vale circa 100 milioni di dollari d’affari per un solo weekend, cifra che finirà probabilmente nelle casse di New Orleans. Intanto, il coach della Nazionale di basket di Team Usa che proverà a vincere ancora l’oro a Rio de Janeiro, Mike Krzyzewski, ha approvato il dietrofront su Charlotte («La Bathroom Bill è una legge imbarazzante») e così Kevin Durant, uno degli assi più ascoltati della Lega, («Capisco sia una decisione difficile, ma la rispetto. Nessuna discriminazione può essere permessa»).

E la voce dei protagonisti è importante, anzi indispensabile in questo frame storico per alzare il livello d’attenzione, tutelare e allo stesso tempo allentare la sete di riscossa della comunità afro negli Stati uniti. Altre quattro star, Lebron James, Carmelo Anthony, Chris Paul e Dwyane Wade recentemente alla cerimonia degli Espy Awards 2016, organizzata da Espn per premiare i migliori atleti dell’anno, si sono vestiti di nero e dal palco hanno invitato i colleghi a piazzarsi in prima linea contro la discriminazione razziale, anche fornendo risorse per «ricostruire, rafforzare, aiutare a cambiare», ha detto dal palco James. Mentre Anthony, stella dei New York Knicks cresciuto in un ghetto di Baltimora, ha ricordato Jesse Owens, Jackie Robinson, Muhammad Alì, Kareem Abdul Jabbar, Billie Jean King e Arthur Ashe, passati attraverso ingiustizie e abusi, simboli di quello che gli sportivi dovrebbero oggi rappresentare. Alla convention democrat che inizia lunedì 25 pci sarà anche la mamma di Trayvon Martin, 17enne afroamericano colpito a morte quattro anni fa da un agente in Florida.