Nell’autunno del 1932 si diffuse la notizia che Trockij stava per recarsi a Copenaghen per una conferenza all’università. Si annunciava l’evento: da tempo infatti il rivoluzionario russo viveva al confino, senza riuscire a procurarsi un visto per l’Europa o per gli Stati Uniti. Con gli anziani impegnati altrove, a Simon Guttmann, direttore dell’agenzia fotografica berlinese Dephot, non restò che inviare in Danimarca il suo giovane «assistente alla camera oscura», uno studente ebreo espatriato in Germania da Budapest per motivi politici: Endre Erno Friedmann. Ma il 27 novembre allo Sport Palast il servizio di polizia, giunto in forze temendo un attentato stalinista, impedisce l’ingresso ai fotografi, accorsi da ogni parte con vistose attrezzature: vietato fare riprese, ordine tassativo di Trockij. «Portavo in tasca una piccola Leica – ricordò anni dopo lo studente ungherese –, quindi a nessuno venne in mente che io potessi essere un fotografo…». Inquadrato da sotto, con la sua montatura tonda e i baffi folti, Trockij imprime la pellicola clandestina con la foga e la gestualità oratorie di cui un dissidente del suo calibro è capace. Rubato a un leader ‘aniconico’, fu quello il primo servizio importante di colui che sarebbe diventato un fabbricatore di icone moderne col nome, americano, di Robert Capa.

1938. A venticinque anni Capa è già «il miglior fotografo di guerra del mondo» per l’autorevole «Picture Post», che pubblica il reportage sul conflitto civile spagnolo. Crudele e patetico ma saturo di sentimenti e di speranze politiche, esso culmina nell’istantanea del miliziano fulminato da un proiettile e, simultaneamente, da un clic. Anche il fotografo, dunque, è una specie di killer con il mirino? È l’interpretazione predatoria del fotografare (Flusser), che ha un suo punto di forza nel rituale biomeccanico – premere il grilletto, azionare l’otturatore – e una celebrazione tutta modernista nel concetto di istantanea, praticato al massimo grado di consapevolezza da Cartier-Bresson, con cui l’amico Capa fonderà un nuovo modello di agenzia dal nome, pare, dello champagne (Magnum), allo scopo di tutelare il diritto d’autore dei fotoreporter.

Sinora credevamo di aver visto tutto, dello spericolato ed empatico testimone di guerra in bianco e nero: l’ufficiale americano accovacciato per ascoltare dal vecchio contadino siciliano la direzione presa dai tedeschi; lo sbarco in Normandia, undici scatti sopravvissuti non al teatro di guerra («Le pallottole della squadra hitleriana aprivano buchi nell’acqua attorno a me…») ma allo zelo di un addetto alla camera oscura del «Time», che alzando troppo il calore durante l’asciugatura distrusse quasi tutto il lavoro. Anche le celebrità di Capa le sapevamo in nero, Hemingway col figlio a Sun Valley, Bogart e John Houston per strada il giorno dell’incoronazione di Elisabetta II, Picasso sulla spiaggia con l’ombrellone e la Gilot, Matisse vecchio e grasso che disegna ‘da lontano’ impugnando una lunga canna intinta. Adesso però un volume seducente sin dalla copertina – titolo da film stampato sopra una trasognata Capucine sullo sfondo di Roma: Robert Capa colore (Electa, pp. 208, euro 49,90) – ci invita a fare capriole di gioia come per il ritorno inaspettato di una persona amica che ci apprestiamo ad amare con slancio nuovo. Edito in prima battuta dall’International Center of Photography di New York (ICP) per una mostra centenaria dell’ungherese, Electa ha rifatto il volume tale e quale (bellissimo) mantenendo intatto il layout di Molly Spindel, che «riprende la verve e il dinamismo delle sedi che accolsero originariamente le foto a colori di Capa», i rotocalchi del dopoguerra oggi battuti alle aste editoriali su e.Bay: «Life», «Holiday», «Illustrated», «This Week». Dietro all’autrice Cynthia Young, che ci accompagna con affetto e competenza nella riscoperta, si intravvede un team di agguerriti professionisti e tecnici dell’immagine, perché ormai le pellicole di settanta o cinquanta anni fa hanno bisogno dei paleontologi.

La prima sensazione è: disorientamento, però familiare. Tornano a girare in testa parole desuete, rullino, pellicola, negativo, diapositiva; e fotogiornalismo, cioè «la fotografia che, insieme a un testo, si propone di dare informazione sui fatti di attualità» (dal dizionario Einaudi di Robin Lenman). Fotogiornalismo è il punto, e sarà sufficiente qui nominare qualche anello della catena professionale che ne configurava il carattere premiante e la leadership fino all’avvento della tv: la tecnica di ripresa e l’attrezzatura, proprio quelle che consentirono a Capa di catturare in esclusiva Trockij; la trasmissione veloce delle pellicole: macchina, treno, nave; la riproducibilità in serie delle immagini da parte delle agenzie che poi le piazzavano ai vari giornali. Il fotoreporter sul fronte di guerra (Capa ne ha ‘fatte’ cinque) non era certo in grado di controllare tutto il ciclo, scordarsi, perciò, l’aura artistica dell’immagine incorniciata al museo: Capa ha sempre il problema di rifornirsi, le pellicole Kodachrome nei primissimi anni quaranta non erano facilmente reperibili, né tutti i laboratori le sviluppavano; c’era in agguato l’incognita della riuscita a causa della fragilità del supporto su cui si doveva ‘scrivere’, ogni volta i negativi devono raggiungere il laboratorio più vicino, correre il rischio di essere rovinati durante lo sviluppo, infine approdare – ma in quale percentuale fedele all’idea che l’autore aveva in testa? – sulla scrivania della redazione, a Parigi, a Londra.

Dalla traversata atlantica New York-canale della Manica a bordo di un vecchio cargo portaerei alleato, dribblando i sottomarini tedeschi (articolo e foto per il «Saturday Evening Post», agosto ’41), all’inchiesta sulla Queen’s Generation: «Giovani in una civiltà che cambia» con il testo di Bertrand Russell («Picture Post», gennaio ’53), sino a un’Ava Gardner ‘gypsy’ che a Tivoli gira La contessa scalza («Collier’s», luglio ’54): tutte le immagini, leggiamo, sono state scannerizzate e cromaticamente corrette dall’ICP per restituire «alla pellicola colore sufficiente a renderla adeguata alla propria epoca». Confrontare la qualità del restauro con le pagine originali, ripubblicate in scala ridotta, dei più significativi servizi a colori di Capa. La scansione cronologica lo vede muoversi tra registri opposti con eleganza e understatement, dai cacciabombardieri e dalle macerie d’Europa alle case di moda, abiti da sogno, mete balneari come Deauville e Biarritz, nevi alpine… Dovunque riesce a restituire il prisma umano della transizione, irripetibile e condivisa, dalla Seconda guerra mondiale alla Liberazione. Certi capitoli più autobiografici come il ritorno a Budapest (1949) e soprattutto il tono delle storie, così impastate alle peripezie degli spostamenti necessari per documentarle, rendono questo libro struggente come un film di Douglas Sirk. Le tinte pastello, i sentimenti politici, l’ironia restituiscono senza filtri retorici quel ‘tempo di vivere (e di morire)’, e tuttavia non manca mai una misteriosa forza simbolica.
Leggerezza di Capa, sia quando fotografa sia quando scrive. Un giornalista di razza i cui pezzi, che noi penseremmo accessorii, di accompagno –, svelano una naturale sintonia con le immagini. Erano queste le regole d’ingaggio, il reportage comprendeva testo e immagini, a parte i casi, qui documentati, di Irwin Shaw in Israele, o del citato Russell, o di Steinbeck, l’amico Steinbeck, inviato con Capa in Unione Sovietica per quello che sarebbe diventato il libro A Russian Journal. È una consuetudine che ci fa riflettere non soltanto sui mutati costumi editoriali e contrattuali dei magazine, ma soprattutto sulla forma per così dire complementare in cui questo genere di fotografia veniva concepito e allestito.

Il Capa giornalista – chi lo aveva mai letto? – non è meno sorprendente del Capa ‘a colori’. Esatto, prensile, attento ai particolari altrettanto che alla cornice, nomenclatorio e ‘linguista’ senza essere noioso. L’innato humour ebreo coltivato in Europa, tra Berlino e Parigi, e in America, certifica uno stile moderno che gli permette di porsi costantemente in gioco, come quando all’interno di un memorabile servizio sulle località alpine alla moda (gennaio 1951) racconta in che modo ha abbordato a Zermatt, con tre fotocamere al collo, una graziosa ragazza americana intravista al bar («indossava pantaloni attillati, maglione dolcevita e tutti sollevarono lo sguardo tranne gli scozzesi…»). Improvvisandosi maestro di sci ottenne in cambio da lei che posasse. Ne scaturì il bruciante e spensierato ritratto che vediamo a pagina 104, dove il ghiacciaio e la gioventù si specchiano sugli occhiali da neve.

Ma questo libro così filologico e rigoroso, e cionondimeno galvanizzante, ha l’ulteriore merito di riposizionare «il più grande inviato di guerra» in uno spettro critico ampio e articolato, cioè infine dentro al corpus completo dell’opera e della sua stessa esistenza, conclusa nel modo fatale che sappiamo. Ne escono ridimensionate, in prospettiva, anche certe ipostatizzazioni in voga, mostre che celebrano gli ‘artisti’ astraendoli dai contesti industriali per i quali molte delle loro immagini venivano progettate. A buon diritto il miliziano di Capa è finito nei libri di Storia, ma lo inchiodò la stessa lestissima mano che anni dopo, sul set di Moulin Rouge, rapì l’istante in cui la ballerina toglieva dalla testa di un cliente stupefatto il cilindro: con la mossa maliziosa della gamba.