. L’arcobaleno e la gravità- . Ovvero di cosa non parliamo quando non parliamo di cinema. Sempre in ritardo, oppure e meglio: troppo presto troppo tardi. discrepanza continua, bave di eternità, ingurgitate già nella prima colazione -ma non c’è nulla di meglio di un buon colpo di vodka tracannata all’alba. poi, tra giorno e notte, il cinema di saint just, evocato e distornato da debord, un proliferare diffuso e disperso di molecole post-umane vorticanti tra umano e non umano. non è facile guardare il cinema in faccia. chi ci prova, resta spesso accecato. registi attori sceneggiatori produttori musicisti autori vari, artisti e cineasti d’ogni specie, festivalisti e festivalieri, e i filosofi e i critici e: gli spettatori. Tutti, a migliaia a milioni a miliardi, pronti a salire sul treno (non c’è nessun pericolo, le carrozze sono ferme in stazione a la Ciotat) e a uscire dalla fabbrica(con esattezza quasi perversa sono le maestranze delle officine Lumière i primi ‘figuranti’ che lasciano dietro di sé il lavoro tradizionale a favore del lavoro nuovo automatico che fa di ognuno di noi un lavoratore dello spettacolo, ovvero un lavoratore-spettacolo in sé, più meno addetto (addicted?), Per chiudere il rovesciamento, ci si può spingere fino all’ inversione dell’insegna di auschwitz: ‘la libertà(ci) rende lavoratori’,  teorema ultimo della linea tv alla ‘grande fratello’. Allora, arretrando fino all’oggi, al ‘cosa di nuovo’. Consideriamo, per una volta o ancora una volta, il consistere proprio del cinema in una assunzione clamorosa del mondo quale nastro, ripetibile: il gioco dei lumière era inquietante in quanto proponeva e permetteva a tutti o a chiunque di ‘rivedere’ e ‘rivedersi’, con il sospetto di una ‘ri-visione ‘ continua e del ‘riessere’ quale scelta tra essere e riessere. Di questa situazione, il cinema è da sempre la vedetta e il guardiano, l’avvistatore e l’avvistato. (Fin troppo coerente quindi, il fenomeno dei (grandi) registi che annunciano o attuano il ‘ritiro anticipato’, Bela Tarr per primo, Tsai Ming Liang, Soderbergh, Tarantino, eccetera. Perfino De Oliveira abbandona e spegne il ritmo della sua meravigliosa acronica traversata da esploratore e palombaro dello spazio-cinema. Coppola ricomincia da zero. Malick, dopo decenni, di colpo libera e sviluppa il suo cinema in quanto atto di noncurante distruzione di qualunque regola preesistente). Non si tratta di problemi di linguaggio. Il cinema è una lingua, che nessuno può dire di conoscere. Ne apprendiamo tratti e spezzoni, solitamente ritirandoci in buon ordine o in rotta. La situazione è alla stalker: il resto di una vacanza spaziale, nella spazzatura resta una macchinetta narcisista, in solaris l’uomo è una macchina imperfetta in cui si comprimono e si affastellano e disfano fatti e vite diverse, ricordi spaziali di altri sé. In 2001 è precisissimo il ruolo del monolite, resto dal futuro. E il cinema, anche se non necessariamente lo proclama o lo confessa, è automaticamente alternativo, un ‘Del Resto’ assoluto. Non render(se)ne conto è un crimine. Giochicchiare con esso (a meno di essere maradona) è ridicolo, patetico utilizzarne la forza per megafonare nazionalmente o mondialmente gli ‘eghi’ modesti o mediocri di ‘autori’ boriosi o ignavi. Farsene i cronisti pedissequi o anche inventivi, se non si è pettegole di altissimo lignaggio, è aderire allo starsystem in cerca di brillantini della stola. E vogliamo accettare l’invito politico ripetuto a ‘fare sistema’, a imbrigliare in uno schieramento compattamente ‘economico’ tutti gli ‘attori’ del momento, a ridurre proprio la confusione babelica delle lingue che il cinema ‘scandalosamente’ propone e incentiva? Credo che anche i ‘governi’ e le banche che li dirigono possano ragionevolmente capire che è il momento di ‘sprecare’ in modo diverso e più intensamente sprecato rischiando pochissimo con un finanziamento a pioggia di – poniamo – 7500 euro a testa per giovani dai 17 anni in su (e anche da settanta in su?), un migliaio o due (o senza limiti di età?), che incida sullo ‘sprecariato’ e sulla (né)loro (Nè nostra) vita, con la possibiiità di farne ‘qualcosa di filmico’: uno spunto una cosa-film corta lunghissima, o trailer o singole scene con effetti o con affetti o senza né gli uni négli altri,una ‘leva’ e nulla più, durissima nella selezione e poi però apertissima nello svolgersi e negli esiti. Come fanno a non vergognarsi il cineasta il critico il festivaliero l’occupante di una vecchia sala sapendo che l’articolo di Astruc sulla caméra-stylo fu pubblicato nel 1948? Ma non preoccupiamoci del ritardo endemico del cinema: ‘resto dal futuro’ e ‘futuro rinviato’ per eccellenza (quando vediamo -o leggiamo del ‘tentato cinema’ di precursori e concorrenti dei lumière, constatiamo attoniti che tutti gli sviluppi più avveniristici erano già previsti e a volte funzionanti). Qualcuno o qualcosa ‘verrà’. Se abbiamo la fortuna e la sventura di ‘amare il cinema’ dovremmo allora, con attenzione distratta abbandonarci alla distrazione attenta (vedi benjamin e freud) nei confronti del ‘film’ che stiamo sempre vedendo, che abbiamo degli occhi costantemente sovrimpressi in uno spazio che assomiglia (siano lumière o méliès, chaplin o keaton, godard o truffaut, bela tarr e transformer, lubitsch e hitchcock, lang o o rosselilni, ovvero fatte salve le più risapute opposizioni cinefile) al farsi di una scultura continua (ovvero, per dir cose che volevo dire qui a pesaro, ma non volevo scrivere), qualcosa di più articolato e insieme più semplice e meno semiotico del ‘discorso filmico’ che in pasolini parve a metà anni sessanta proprio l’avvio balbettante di una nuova coscienza filmica, essendone con la stessa probabilità una lalìa post sonno/sogno o pre. il gesto cinema (dello spettatore del critico del cineasta) è probabilmente tutto nell’intreccio tra differenti stati spaziali, che appartengono fuggevolmente in ogni film (e costantemente nei grandi film) al ‘passato’ dell’esser stato pensatogirato/filmato, al futuropresente (lo stato della predizione spettatoriale, che sembra non aver troppo spazio ma che invece si staglia nell’apertura costante dello spettatore critico stessa, direi nello scarto tra un fotogramma e l’altro, seggiolino del (pre/ri)vedere e riimmaginare il fotogramma appena perso anche se visto). e infine dalla posizione del presente paradossale ma inevitabile per cui qualunque tentativo di (pre)scrivere/scenegggiare un film si scrive obbligatoriamente al presente. Il presente opprimente e svolazzante del cinema che si pensa, la ’nostalgia del presente interna al presente stesso, la lingua che batte sul dente che non c’è e quasi non duole come vuole o vorrebbe, già inghiottito nel parlarsi e scriversi – dall’orrido di un passato e futuro voraci che lo trasmutano all’istante; quasi che il presente vi si possa manifestare e dirsi solo pronunciandolo al passato/futuro (non si parla infatti di tempi, ma di curvature di senso, di forme in torsione, di occhi nel maelstrom.
(scritto in due ore dall’alba come traccia e surrogato di un intervento previsto e non vistoall’incontro di pesaro. scrittoletto troppolungo ma troppocorto fu il tempo e i miei tagli aggiunsero oscurità e sospensione al diVAGUare, fu letto a pesaro e qui non son riuscito a dar più peso al narcisismo di non esserci che a quello di finger d’esserci).

*Inviato alla Mostra di Pesaro, per essere letto alla tavola rotonda dal titolo «Il futuro del nuovo cinema»