Il 28 settembre del 1899, prima che si aprisse il nuovo secolo con le sue deflagrazioni dei linguaggi correnti e dei confini nazionali in guerra, Giovanni Segantini termina la sua breve vita chiuso in una buia baita sul ghiacciaio dello Schafberg, dove si era recato qualche giorno prima con suo figlio piccolo Mario e la domestica Baba. A tradirlo è una peritonite, incurabile in un posto così impervio e solitario. La montagna tanto amata e idealizzata, il soggetto ritratto per decenni nella sua quotidianità dimessa, senza infingimenti se non una luce trascendente data per spatolate filamentose, lo ha condannato a soli 41 anni.
La sua è una fine dal sapore eroico (era lì per dipingere dal vero il Trittico a cui affiderà il suo testamento intellettuale), che suggella una vita difficile, pur se costellata di conquiste. Una vita che annovera una bruciante sconfitta: il fallimento dell’estremo progetto visionario sul Panorama dell’Engadina, intorno al quale avrebbe voluto coinvolgere altri artisti (in primis, il suo amico Giacometti, padre di Alberto) e gli albergatori della zona, per sbarcare tutti insieme – con un’opera totale di duecentoventi metri per venti di altezza, sintesi di venti chilometri a perdita d’occhio – all’Expo parigina che accoglieva gli albori del XX secolo.
Non ci riuscì, Segantini, a pubblicizzare i suoi paesaggi in uno di quegli «acquari della lontananza» (così definì i panorami Walter Benjamin). «Sono più di 14 anni che studio nella natura dell’alta montagna gli accordi di un’opera alpina, composta di suoni e di colori, che contenga in sé le varie armonie e le compendii in una, unica, intera». Qualcosa dentro di lui era mutato definitivamente: lavorando come un ossesso a quell’idea, cercava una sintesi, sempre affannandosi intorno ai due poli di realtà e immaginazione, cruda verità e mesta rivelazione di stati interiori. Qualcosa che era già accaduto nella sua pittura in quadri come Le due madri (1889), una summa umbratile di sacro e profano, di intimo scorcio e picco esistenziale. Il genere «pittoresco» non entrò mai nel vocabolario segantiniano, ma trovò cittadinanza in quello della critica che lo costrinse in angusti confini montanari, inchiodandolo al provincialismo.

Il disegno moderno

La mostra apertasi presso Palazzo Reale (in corso fino al 18 gennaio 2015), organizzata dal Comune di Milano, Palazzo Reale, Skira editore in collaborazione con la Fondazione Antonio Mazzotta e a cura di Annie-Paule Quinsac, autrice del catalogo ragionato, raccoglie nella città degli esordi giovanili di Giovanni Segantini centoventi opere, allestendo un percorso che conduce fino ai colli della Brianza e poi sale sulle montagne dell’Engadina. Si finisce, infatti, in quello chalet Kuomi, a Maloja, che l’artista abitò con tutta la famiglia e trasformò in luogo d’elezione, anche simbolico del suo credo artistico: fuori, una semplice e razionale costruzione; all’interno, un métissage di arredi Bugatti (la sua compagna Bice era la sorella di Carlo) che profumavano di modernità e di Liberty.
La retrospettiva, densa di prestiti importanti, non gode però di un allestimento all’altezza delle opere esposte: sono trascurati i disegni (il cui tratto giapponesizzante spiega invece molto del suo simbolismo), a volte anche poco illuminati, mentre si punta su alcuni grandi dipinti, forse più scenografici, ma sconnettendoli dall’unitarietà della poetica del pittore «apolide». Perché se è esistito un artista coerentissimo, in tutte le fasi della sua vita, questo è stato proprio Giovanni Segantini. Se, metaforicamente, la sua biografia è stata dolorosamente segnata dall’essere senza patria – nato in Trentino, allora austriaco, renitente alla leva, si trasformò in esule, non divenne mai italiano per intoppi burocratici e non fu nemmeno svizzero – la sua arte, che insiste spesso sui medesimi soggetti, è una sinfonia della luce che si avvia verso le istanze simboliste sin dalla prima ora. Le Alpi grigionesi, pur se vissute ed esperite nella loro asprezza paesaggistica giorno dopo giorno, sono un topos dentro il quale far precipitare temi universali come la vita, la salvezza, la morte, la maternità.
La natura, lungi dall’essere romanticamente tempestosa, promette placidi sonni di pastorelle e bambini, prevede schiene curve che si stagliano al crepuscolo, attende temporali in nuvoloni che si addensano sopra greggi di pecore. Sono un laboratorio linguistico en plein air, proprio come la montagna Saint Victoire lo fu per Cézanne. Sovrano, regna il silenzio di rupi e cieli.

L’educazione sentimentale

Segantini, l’orfano che a Milano viveva di espedienti e vagabondaggio, che a dodici anni era già ospite al riformatorio, non poté mai viaggiare per l’Europa perché privo di documenti. Ma ebbe dei mediatori eccellenti che lo resero pittore internazionale e dal suo ultimo rifugio fra i monti (peraltro, lussuosa località turistica, con un gran via vai di intellettuali) poté infervorarsi delle novità che circolavano fra gli artisti e adeguare il suo linguaggio, oltre che a se stesso, alle tendenze in voga.
I fratelli Grubicy, prima Vittore e poi Alberto, suoi mercanti, mentori e collezionisti (ma erano qualcosa di più, figure oggi indefinibili), girarono il mondo al posto suo, lo tennero al corrente con lettere, illustrazioni, riviste (di cui la casa dell’artista era infestata, in tedesco, austriaco, inglese). Intanto, lo «pubblicizzavano» in Francia e altrove. Il suo fu un romanzo di formazione per interposta persona. Non a caso i Secessionisti di Monaco lo vollero nelle loro esposizioni: nel 1893 conquistò la medaglia d’oro con Mezzogiorno sulle Alpi, due anni dopo venne premiato alla Biennale (Ritorno al paese natio) e nel 1896 a Vienna. Il rispetto tributatogli dai tedeschi gli costò (a morte già avvenuta da tempo) l’anatema di Boccioni che lo accusò di «sdrucciolare dagli azzurri ghiacciai italiani alle sterili bassure germaniche».
Nonostante il semianalfabetismo dovuto alla sua istruzione selvaggia, piena di lacune, Giovanni Segantini amò molto scrivere (anche racconti) e teorizzare la sua arte: pur cospargendo i fogli di errori ortografici, si mostrò sempre consapevole della direzione intrapresa. «Sotto il pennello, la gamma deve scorrere smaliante e deve far nascere gli ogetti le persone le linie… Il vero cosidetto si deve oltrepassare», scriveva con la sua incerta grammatica. E a Pellizza da Volpedo confessò il suo amore per le pecore, animali dalle forme armoniche ed eleganti. Non quelle bastarde, però, «perché le parti sono sempre discordanti».

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