I toni malinconici e la desolazione surreal-poetica che caratterizzano i film di Aki Kaurismaki non sono fiction. A Helsinki la puoi ritrovare passeggiando in alcuni luoghi della città, in particolar modo nella zona portuale di Jätkäsaari, nei cantieri navali e nei quartieri popolari che si trovano nella parte orientale e sud-orientale della città, oltre ai locali di proprietà dei fratelli Kaurismaki in cui Aki ha girato alcune sequenze dei suoi film. Il Bar Corona, con la sala da proiezione e quella con i tavoli da biliardo con il ritratto fotografico dell’attore Matti Pellonpää, indimenticabile nella sua interpretazione in Leningrad Cowboys Go America e in Vita da bohème, e il Kafe Mockba in perfetto stile moscovita anni Cinquanta.

A Helsinki si ha sempre la consapevolezza di essere periferici, i ritmi sono più lenti rispetto a altre capitali internazionali non ci sono gli hipster di Berlino, Amsterdam o Londra, ma non per questo la cui scena culturale è inferiore a quella di altre capitali europee, è anzi vero il contrario. La digital economy, che fin dai primi anni Novanta è stata rilevante, ha assunto toni videoludici. Il dopo Nokia – anche se l’azienda è ancora presente pur non occupandosi più di telefonia – è stato dimenticato grazie alle imprese di computer games made in Finland. Angry Birds e Clash of Clans, sviluppati rispettivamente da Rovio Entertainment e da Supercell, entrambe con sede a Helsinki, sono le aziende più importanti, ma ve ne sono molte altre anche se non così riconosciute a livello internazionale. Allo stesso modo, oltre al Kiasma, che è indubbiamente il museo di arte contemporanea più noto ve ne sono altri altrettanto interessanti.

Da poco ha inaugurato l’Helsinki Art Museum, dopo una ristrutturazione durata più di un anno. È collocato all’interno del Palazzo del tennis, edificio polifunzionale con cinema, musei, negozi e ristoranti. L’edificio fu costruito per le Olimpiadi che si sarebbero dovute tenere a Helsinki nel 1940, poi annullate a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale. Composto da una galleria dedicata all’arte finlandese delNovecento e tre spazi espositivi per il contemporaneo, il museo ospita le personali di Ai Weiwei e del collettivo IC-98.

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White House di Ai Weiwei

Ai Weiwei@Helsinki raccoglie ventisette opere realizzate dagli anni Ottanta fino ad oggi, installazioni, fotografie, statue, video accumunati dall’utilizzo di un unico materiale: il legno. Un materiale che accomuna la cultura cinese e finlandese che Weiwei considera una testimonianza storica visto che in Cina, a causa della repentiva urbanizzazione, molti alberi e edifici in legno vengono distrutti. White House è una delle tante installazioni presentate in mostra, è una residenza della dinastia Qing (1644-1911) che l’artista ha salvato dalla distruzione e l’ha dipinta di bianco, ed è allestita accanto a alberi e a strutture recuperate provenienti da altri templi in demolizione (la rassegna è visitabile fino al 28 febbraio 2016).

Il legno è presente anche in Aftermath, la personale degli IC-98, collettivo composto da Patrik Söderlund e Visa Suonpää (aperta fino al 31 gennaio 2016). Anche loro cercano di preservarlo, con le loro videoinstallazioni composte da disegni animati in bianco e nero. Come muteranno le foreste finlandesi e le materie organiche nei prossimi decenni, dopo la costruzione del deposito di sostanze radioattive e rifiuti tossici che stanno scavando a Olkiluoto, a circa trecento chilometri a nord-est di Helsinki? È possibile credere, come assicurano le aziende che stanno costruendo il deposito, che sarà realmente in grado di contenere al suo interno le scorie nucleari di quattro reattori senza causare danni collaterali all’ambiente? Onkalo, questo è il nome del deposito che in finlandese significa «nascondiglio», sarà ultimato nel 2100 e sarà sigillato per centomila anni, il tempo necessario per far perdere la tossicità ai rifiuti immagazzinati. Nelle loro videoinstallazioni gli IC-98 immaginano le mutazioni possibili della natura e degli alberi, nel tempo futuro.

L’artista e filmmaker Mika Taanila nella personale Blackout, all’Hameenlinna Art Museum (fino al 6 marzo 2016) si interroga sui dialoghi esistenti tra l’immaginazione utopica degli anni Sessanta e quella del tempo presente. Per le sue video installazioni utilizza tecnologie obsolete come Vhs, musicassette, stampanti a aghi, found footage film e materiali d’archivio. È particolarmente interessato alle modalità nelle quali i dispositivi tecnologici stanno ridefinendo la registrazione del tempo.

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Adel Abidin

Per questo, nella video installazione The Most Electrified Town in Finland, dove mostra la costruzione del terzo reattore della centrale nucleare di Olkiluoto, utilizza found footage di film russi e americani degli anni Cinquanta quando le centrali nucleari venivano accolte con grande ottimismo accanto a riprese documentarie e a interviste realizzate dal 2005 al 2012, quando ha terminato l’opera.

Per Taanila non esiste un’unica timeline, il passato rispetto al presente o al futuro, o viceversa, a lui interessa individuare il significato storico e culturale degli artefatti visivi per metterli in relazione con la cultura mediale a loro contemporanea. Si occupa del tempo presente 101 For All, la personale di Tellervo Kalleinen e Oliver Kochta-Kalleinen. Gli artisti dopo aver partecipato a più di trenta dibattiti pubblici riguardanti l’immigrazione, la privatizzazione della sanità, l’utilizzo dell’energia nucleare, l’eutanasia hanno intervistato cento cittadini finlandesi. Il visitatore può selezionare dalle sessantacinque ore di video disponibili un’intervista e proiettarla sul grande schermo della Kunsthalle. Per questo la mostra si chiama 101 For All: perché colui che sceglie è il 101simo partecipante. I Kalleinen si sono sempre occupati di questioni di carattere sociale, dai cori di protesta realizzati in molte città (Milano compresa) in cui disagi e malumori collettivi erano trasformati in cori musicali, ai video I Love my Job in cui mettevano in scena le dinamiche di potere presenti nei luoghi di lavoro, a The Making of Utopia, documentari realizzati in quattro comunità utopiche australiane, a People in White, film in cui dieci ex pazienti psichiatrici raccontavano la loro riabilitazione, interpretano a volte loro stessi a volta il ruolo del medico: l’opera ha vinto il premio per il miglior documentario a Lo Spiraglio Film Festival della Salute Mentale nel 2012.

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Jani Leinonen

Sono diversi i toni di School of Disobedience, la personale di Jani Leinonen che raccoglie più di cento sue opere, ospitata al Kiasma (fino al 31 gennaio prossimo). La pratica artistica di Leinonen (nato nel 1978) sono vicine a quelle dei Culture Jammers e di Adbusters, la rivista dell’ambiente mentale che da Vancouver, dal 1989, indaga questioni riguardanti la tossicità dell’ambiente mediatico e gli effetti psicopatogeni che ne scaturiscono. Leinonen è il prototipo dell’artista «pubblico» che utilizza per il suo lavoro la pubblicità e il linguaggio dei media, oltre a organizzare eventi e incontri.

I protagonisti delle sue installazioni sono oggetti della cultura contemporanea, detersivi, prodotti alimentari i cui brand vengono alterati. Non è un caso che proprio lui sia stato invitato da Bansky a partecipare al suo Dismaland Bemusement Park, considerata l’attitudine situazionista dell’attivista finlandese. «Mi piace citare Howard Zinn – precisa Leinonen – quando sottolinea quanto le cose più terribili accadute nella storia dell’umanità, il genocidio, la schiavitù, la guerra, siano successe come conseguenza dell’obbedienza a istanze ideologiche. Il problema è che gli individui si inchinano ai loro leader perché sono ricattabili, temono la povertà, la disoccupazione, l’emarginazione sociale. L’obbedienza è passiva, la disobbedienza richiede invece soggetti attivi e questo, si sa, è molto più faticoso».

Sempre al Kiasma troviamo Demonstrating Minds Disagreements in Contemporary Art la collettiva (visitabile fino al 20 marzo) di diciannove artisti internazionali che, contaminando la pratica estetica e quella politica, indagano questioni legate alle precarizzazione del lavoro, all’educazione e alle disuguaglianze economiche. Pur consapevoli di non poter competere con la stessa velocità con la quale i media si impadroniscono degli eventi storici (come sottolinea Boris Groys nel testo pubblicato in catalogo), gli artisti agiscono criticamente sulle modalità narrative dell’immaginario massmediatico contemporaneo.

Se, come rileva il filosofo Jacques Rancière, il reale deve assumere le forme della fiction per essere indagato e decostruito, gli artisti in mostra, tra cui Kader Attia, Sylvie Blocher, Tanja Boukal, Rainer Ganahl, Lise Harlev, Clara Ianni, Amal Kenawy, Cristina Lucas, Goshka Macuga, pur utilizzando linguaggi e materiali diversi tra loro – fotografie, sculture, video, installazioni, documentari – contrastano non gli eventi in quanto tali (rivolte, flussi migratori, atti terroristici) ma il sapere che definiscono e l’influenza che esercitano nell’immaginario collettivo.