Si sta parlando molto del «verbale d’intesa» in materia previdenziale firmato dal governo e i sindacati, ma il suo rilievo effettivo non è tanto nei suoi contenuti – conosciuti da tempo e ancora molto incerti sulle modalità applicative – quanto nell’obiettivo politico del governo di condividere con i sindacati, in prossimità del referendum, una decisione di spesa i cui effetti, però, sono avulsi dai nostri problemi strutturali economici e previdenziali.

Per quanto riguarda la misura più attesa, l’anticipo pensionistico (Ape), il sottosegretario Nannicini, che insieme al ministro del lavoro Poletti ha condotto per il governo le trattative con il sindacato, ha chiaramente detto che il provvedimento non altera la logica della riforma Fornero i cui effetti deleteri economici, finanziari e politici sono stati già ampiamente dimostrati; infatti, esso potrà essere interessante solo per le ristrette categorie di lavoratori «disagiati» (l’ambito esatto è ancora da definire) che verranno esentate dalla restituzione del prestito bancario (di questo si tratta) – e dei connessi interessi e oneri assicurativi (fonte di utili certi per gli istituti privati coinvolti) – necessario per finanziare l’anticipo del pensionamento.

I particolari tecnici non sono ancora stati definiti, ma in mancanza di esenzioni e considerando il minor coefficiente di trasformazione dovuto alla minore età di collocamento a riposo, un pensionato che ha maturato un assegno mensile di 1000 euro netti e volesse anticipare il pensionamento fino al massimo di tre anni e sette mesi, potrebbe vederlo ridotto a meno di 700 euro. In ogni caso si tratta di una sperimentazione biennale i cui esiti andranno verificati in rapporto alle esigenze del bilancio pubblico e alla loro valutazione da parte di Bruxelles. Ma sono proprio i tempi, in questa operazione, ad essere cruciali e lo si capisce meglio analizzando anche le altre misure previste dal «pacchetto»; specialmente l’aumento dell’ammontare della quattordicesima per i 2,2 milioni di pensionati che già la ricevono (mediamente dovrebbe essere di circa 120 euro) e del numero dei suoi fruitori (aumentando da 750 a 1000 euro di pensione mensile il limite per beneficiarne, sarebbero circa 1,2 milioni in più degli attuali e, mediamente, dovrebbero ricevere un assegno aggiuntivo di circa 680 euro l’anno). La logica dell’intervento è la stessa dei famosi 80 euro al mese dati ai lavoratori con meno di 26.000 euro di reddito. Quella decisione, influenzata da esigenze elettoralistiche, come era stato ampiamento previsto, non ha inciso sulla ripresa economica e ha pesato considerevolmente sul bilancio pubblico a scapito di altri più efficaci interventi. Questa volta, in prossimità del referendum costituzionale ad alta valenza politica del 4 dicembre, verranno erogati assegni aggiuntivi ad un complesso di 3,3 milioni di pensionati, ma con effetti che saranno scarsamente efficaci per stimolare l’economia e del tutto incongrui per fronteggiare i problemi strutturali del nostro sistema pensionistico, il quale sta facendo maturare una vera e propria bomba sociale: la creazione di una maggioranza di pensionati poveri. Saranno coloro – oggi sono giovani o oramai ex-giovani – che adesso stanno sperimentando salari bassi e discontinui. Il loro presente viene pregiudicato riducendo la possibilità di trovare occupazione con, ad esempio, l’improvviso ed elevato aumento dell’età di pensionamento introdotto dalla legge Fornero che non viene messo in discussione; il loro futuro viene compromesso prospettando pensioni del tutto inadeguate.

A questo riguardo, nel «verbale d’intesa» si prefigura una non ben definita «fase due» nella quale si dovrebbe affrontare proprio il problema delle contribuzioni saltuarie e inadeguate degli attuali lavoratori; ma – paradossalmente – la sua soluzione viene collegata alla riduzione del cuneo fiscale che implica il taglio dei contributi aziendali al finanziamento delle pensioni dei lavoratori e un processo redistributivo a sfavore di questi ultimi; il quale ci sarebbe anche se la decontribuzione a favore delle imprese venisse completamente fiscalizzata. Ma con gli attuali problemi e politiche di bilancio pubblico, per ridurre il cuneo fiscale si rischierà seriamente di abbassare le prestazioni pensionistiche pubbliche (vale anche per la sanità), magari incentivando i lavoratori a sostenere ulteriori oneri (anche impiegando il tfr ) per procurarsi pensioni private sostitutive che, come è noto, oltre ad essere più costose e più rischiose, generano anche un sostanzioso deflusso di risparmio previdenziale nazionale verso l’estero (circa il 70% di quello gestito dalla previdenza privata, pari a circa 100 miliardi di euro).

Cosicché, dopo aver speso le scarse risorse per l’istruzione dei nostri giovani, riducendo le loro possibilità di trovare occupazione in Italia, essi vengono spinti a formarsi all’estero, dove sono assunti da imprese finanziate dal nostro risparmio previdenziale. Cosa può fare di più autolesionista un Paese?