Christian Eschenbach, magari un po’ celiando (ma attenzione: non troppo e non sino in fondo), si pensa come un «semplificatore di cose» e afferma di voler portare «ordine nel disordine», sebbene non ignori affatto la potenza del caos e la sua incoercibile forza di trazione e di attrazione. Ecco, eseguire calcoli per ottimizzare e per rendere lineare un percorso di tempo nello spazio della vita, a volerlo ridurre a formula sarebbe l’imperativo dell’ex studente di teologia evangelica che non volle diventare pastore per mancanza di vocazione e innanzitutto di fede («volevo tanto credere, ma non ci riuscivo», perché fuori dalla fede, «là fuori regna una meravigliosa indifferenza» che rende liberi gli esseri umani) e che invece ha finito per fondare, insieme a un amico inglese studioso di matematica e dunque, come ogni matematico, fanatico di Arno Schmidt (tanto da essersi voluto recare, molti anni prima, in pellegrinaggio dal Maestro a Bargfeld soltanto per vederlo in carne e ossa; e d’altra parte pure Christian, da giovanissimo, era approdato a Londra con la speranza di incontrare Eliot), una società di software.
Per lui, allora, la «ricerca della giusta soluzione, di un’elegante equazione, ha una bellezza tutta sua». Possiede addirittura «qualcosa di voluttuoso: all’improvviso tutto torna» e torna alla perfezione la messa in posa dei tasselli. Ma Eschenbach, al tempo stesso, si vuole disobbediente e ribelle, un uomo del diniego, un oppositore, vale a significare un fallito, un deragliato – già, il modello è Giona e al profeta vorrebbe dedicare un libro, un saggio che magari nemmeno scriverà mai anche o proprio perché la balena che lo ha nel frattempo inghiottito finirà per sputarlo sulla riva sabbiosa di Scharhörn, un’isola piatta, disabitata, boscaglia, dune basse, nel Mare del Nord, luogo di transito e di riproduzione di molte specie di uccelli, un autentico paradiso per gli appassionati di birdwatching com’egli è. Corteggiamenti, amori in volo, figure e simmetrie aeree – esattamente là dove Eschenbach ha in effetti deciso di rifugiarsi da qualche mese in solitaria contemplazione di un passato che lo assedia, lo minaccia e gli si rivolta contro.
Qui – dopo tutto, dopo i fallimenti, gli schianti professionali ed esistenziali, amorosi e amicali e, in specie, dopo le piccole e grandi implosioni ed esplosioni che hanno piegato, piagato e accartocciato quel sogno (o invece puerile illusione?) di far coincidere semplificazione e desiderio –, nella deserta plaga che non di meno è inoltre quella di un’interiorità ferita e disorientata, il lettore del nuovo romanzo del settantacinquenne Uwe Timm incontra subito, in apertura, questo Robinson munito di cellulare, un Robinson di cui tutto viene raccontato in terza persona, andando a ritroso e tra continue interferenze del qui e ora, a misurarne la condizione presente e lo stato dell’arte: ovvero gli strascichi di quella metafisica dell’amore messa così a dura prova, strascichi che non si sono placati né conclusi. Il titolo italiano – La volatilità dell’amore (Mondadori «Sis», traduzione di Matteo Galli, pp. 254, euro 20,00) – appare letteralmente arbitrario rispetto all’originale Vogelweide. Walther von der Vogelweide, vissuto all’incirca tra il 1170 e il 1230, viene considerato il più eminente e significativo poeta del medioevo tedesco. Potremmo dirlo sinonimo di amor cortese, cantore come fu della libertà e della piena felicità degli amanti. Ma il suo nome vuole anche dire, e qui alla lettera, «pascolo d’uccelli». Titolo arbitrario dunque, sebbene non impertinente. Ma il modello profondo del tono e soprattutto della geometria del libro è, ovviamente, Le affinità elettive.
Il procedere riflessivo e concettuale, il piglio teorico, quel ragionare disteso, calmo, fluido e fluente, e però sbigottito, sorpreso, intorno all’amore e al desiderio, alla passione e al matrimonio, al caso e alla necessità, insomma i discorsi più che le azioni dei quattro personaggi posti a pilastro del romanzo non fanno che indurre alla tentazione del confronto. Oltre a Eschenbach, ci sono l’artigiana, l’orafa Selma, sua compagna, quindi Anna, insegnante di storia dell’arte e di latino, e il marito Ewald, architetto – ecco il quartetto che dà forma all’affannoso gheriglio sentimentale, quartetto che si scompone e ricompone senza mai perdersi di vista e senza mai rinunciare (o, almeno, non del tutto e finché possibile) alla «ricerca» necessaria dopo uno «svuotamento di senso».
Attorno a essi preme la multiforme folla, l’umano e il disumano affastellarsi di nuovi miti e di incresciosi, impensabili idoli, l’immensa comunità che si trasforma, abiurando ai vecchi entusiasmi e alle antiche passioni, ad esempio il disprezzo generale per la critica sociale a vantaggio di una banale complessità impastata di storditi incanti new-age e di arresa condiscendenza tecnologica, di consolatorie «cose celesti» e di grottesche terapie mediante diapason che restituirebbero le vibrazioni del cosmo e producono «pace, pace, pace nell’anima»… I penosi sciamani di un esotico esoterismo di massa hanno sostituito l’angelo di Rilke, di Klee, di Benjamin con l’angelo custode di cui occorre conoscere il nome di battesimo. Nel mentre appare chiaro, nelle pagine del romanzo di Timm, che la mistica delle vibrazioni nulla può contro i vasti focolai accesi nel mondo e nel cuore dell’Europa dalle forme, esse pure nuove e assai evolute, della malvivenza politico-finanziaria. Ma, allo stesso modo, tutto ciò appare irrilevante rispetto alla «sete profonda» provata da Eschenbach nei confronti di Anna, quando quest’ultima lo guarda e lui, «vedendo il modo in cui lei lo osservava, con quello sguardo tranquillo, rivolto proprio a lui, e come lo ascoltava», viene attraversato e folgorato da uno strano pensiero, no, era solo una parola: salvezza. «Lei potrebbe salvarti. Da cosa? Da tutto». Eppure sono diversi.
Per Anna il matrimonio è la modalità necessaria «a mettere fine all’arbitrarietà del desiderio». Abbiamo tanto, afferma, e vogliamo avere di più. Questa è indegnità, smodata ambizione, protervia insopportabile, non equanime distribuzione dei beni interiori. Per l’uomo, al contrario, «il mondo non è sacro. Tutto qua. Ed è una cosa molto triste. Ma questo ci rende liberi». Liberi non dal dolore o dal senso di colpa, ma liberi. Ed è grazie a questa libertà, peraltro condivisa, che Eschenbach resterà amico dei traditi Selma ed Ewald che intanto hanno formato una nuova coppia.
È stupefacente osservare come Uwe Timm sia riuscito, con La volatilità dell’amore (pubblicato in Germania nel 2013), a superarsi e a scrivere uno dei romanzi più belli e importanti delle ultime stagioni letterarie, insieme a Il libro delle parabole di Enquist e a La coscienza di Andrew di Doctorow, e sebbene le opere precedenti – da La scoperta della currywurst (1993) a La notte di San Giovanni (’96), da Rosso (2001) a Come mio fratello (’03), da L’amico e lo straniero (’05) a Penombra (’08) – mai ci avevano lasciati perplessi o, tanto meno, delusi. Quest’ultimo libro conferma la fermezza, la compattezza di uno sviluppo creativo che trova forza anche nelle costanti che lo attraversano, e sarà interessante osservare in proposito come alcuni (se non tutti) i suoi personaggi lavorino a un progetto: in Rosso, ad esempio, Thomas Linde è impegnato nella stesura di un saggio proprio su quel colore; nella Notte di San Giovanni il protagonista compie accurati studi sui vari tipi di patata – e questo quando, nei libri più apertamente autobiografici, il frutto della ricerca non è il romanzo stesso, in forma di resoconto o reperto. Qui, si diceva, Eschenbach pensa a Giona, al suo destino. La volatilità, sappiamo infine, non è evaporazione, irrilevanza, inconsistenza. Volatilità è piuttosto ciò che la terra (il mondo) non sopporta e che resiste nell’aria, mai spezzandosi, sempre in volo. È l’inizio che non conosce fine e si rinnova per non appassire e per morire. Volatilità, nella pagina finale del romanzo, è l’incontro nell’isola tra Anna ed Eschenbach. Potrebbe essere il loro ultimo incontro. Lei è tornata per qualche giorno dagli Stati Uniti dove ormai vive. Sono ore di un’intensità quasi insopportabile e poche pagine, indimenticabili. Ti ho amato, confessa Anna, perché «sai fare le domande». Tu, risponde lui, tu sei l’«assolutezza».