Accettando a malincuore il sacrificio del secondo mandato che aveva sin lì sdegnosamente escluso ma che considerava un fardello imposto dall’amor di patria, Giorgio Napolitano disse: resto al Colle per le riforme, me ne andrò non appena si saranno varate. Il suo con le «riforme» è un legame indistruttibile, tanto che si potrebbe parlare di una presidenza a progetto. Ma questa endiadi sta producendo mostri, e spingendo il presidente sempre più lontano dal ruolo super partes, di organo di garanzia, assegnato dalla Costituzione al capo dello Stato.

L’escalation di questi giorni è impressionante e non può non destare allarme. Solo una ventina di giorni fa, pur sollecitando il Senato a cominciare finalmente l’esame di una «riforma» definita «sempre più urgente» e «matura» e chissà perché «vitale», Napolitano aveva assicurato di non volere «entrare nel merito» del confronto sul superamento del bicameralismo perfetto. Le ultime prese di posizione sono di tutt’altro segno. Riscontrata la determinazione a resistere dei critici del disegno «riformatore» e delle fronde interne agli stessi partiti che dovrebbero garantirne la rapida approvazione, il presidente non si è più tenuto. Prima ha bollato come «spettri» quelli agitati da quanti scorgono il rischio di derive autoritarie (non siamo alle «allucinazioni» della cortese ministra, ma poco ci manca). Poi si è rifiutato di ricevere i senatori che bussavano alle porte del Quirinale per denunciare lo sconcio di un contingentamento imposto a dispetto di quella Costituzione che, pure, egli ha il compito di custodire.Il fatto è che, proprio come il governo, il presidente giura sulla bontà del progetto renziano e berlusconiano di un Senato non elettivo ma con funzioni costituzionali, iper-maggioritario (i 95 senatori saranno scelti a maggioranza da assemblee regionali a loro volta elette col maggioritario) e nel quale il suo successore disporrà di un suo personale gruppo parlamentare (potendo nominare cinque senatori per la durata del proprio settennato).

C’è di che trasecolare, anche solo considerando il contenuto di questa «riforma» costituzionale dettata dal governo, e il suo più perverso effetto indiretto.

Anche grazie al generoso premio previsto dall’Italicum, l’abbassamento della soglia richiesta per l’elezione del capo dello Stato permetterà al partito di maggioranza relativa – quindi al governo – di eleggersi il suo presidente, quindi di controllare Consulta e Csm. Con uno scopo evidente, che è poi lo stesso che ispira la legge elettorale ideata da Renzi e Berlusconi e la nuova disciplina del referendum popolare: porre il sistema costituzionale alla mercé del governo, tacitando le minoranze (anzi escludendole del tutto dalla rappresentanza) e impedendo alla cittadinanza di intervenire (di interferire) nella formazione delle decisioni. Ovviamente questa scelta di campo sconcerta e preoccupa. Non di «spettri» si tratta, ma della concreta minaccia di una mutazione genetica della forma parlamentare di governo, che viene assumendo marcati tratti autoritari e populistici. Ma il problema non è soltanto né principalmente questo. Le cose non sarebbero meno gravi se le «riforme» in discussione fossero accettabili e persino ottime.

La questione cruciale è di ordine costituzionale. Può un presidente far pesare le proprie personali valutazioni di merito? Può egli entrare nell’ambito dell’attività e funzione statuale che attiene all’indirizzo politico, quindi alle prerogative proprie di parlamento e governo? La domanda è retorica: naturalmente non può. E siccome non è la prima volta che Napolitano compie questa scelta eccedendo i limiti della propria funzione, è venuto il momento di riflettere e di chiedersi – fuori da ogni tabù – perché lo fa, e anche che cosa rischia di discenderne.

Forse i precedenti ci aiutano a capire. Fummo in molti, in occasione delle dimissioni del governo Berlusconi nell’autunno 2011, a scorgere una forzatura nell’insediamento di Monti alla guida di quello che insospettabili esponenti di parte «democratica» vollero chiamare «governo del presidente». Si poteva discutere. Ma di certo una forzatura grave ebbe luogo pochi mesi dopo (marzo 2012), quando Napolitano entrò a gamba tesa nel dibattito sulla «riforma» dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori perpetrata dalla ministra Fornero. Per sostenerla energicamente contro il fronte sindacale, e in sostanza cancellare la garanzia del reintegro del licenziato senza giusta causa, simbolo dei diritti e delle tutele della sicurezza e della dignità dei lavoratori.

Un altro episodio per dir così increscioso, che ha rischiato di innescare un duro scontro istituzionale, si è verificato lo scorso marzo, quando, in qualità di presidente del Consiglio supremo di difesa, Napolitano ha cercato di estromettere il parlamento dalle decisioni relative alla maxi-commessa degli F-35, nonostante una legge del 2012 (da lui controfirmata) affidi alle Camere il controllo sulla spesa militare. In questi due casi emblematici (ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi) non si tratta di «riforme» costituzionali o elettorali come quelle ora propugnate dal governo Renzi e sostenute a spada tratta dal presidente. Ma alla base degli interventi esorbitanti di quest’ultimo vige una coerenza essenziale, e squisitamente politica.

È difficile non rilevare che Napolitano interviene quando sente minacciata la trasformazione del paese in chiave «europea», il che oggi significa americana o, più precisamente, americanista, poiché gli Stati Uniti sono in questo discorso un modello definito ad hoc. Un modello che si incentra su pochi assi cardinali: il primato dell’impresa e del «libero mercato»; la governabilità (cioè l’adozione di un sistema bipolare o bipartitico basato sulla connessione diretta elezione-governo); il «rigore» nella gestione della finanza pubblica (che si traduce nella secca e crescente riduzione della spesa pubblica e nella compressione dei diritti sociali); e, naturalmente, la lealtà assoluta, «senza se e senza ma», alla Nato e ai suoi piani militari. È difficile non vedere tutto questo, come è impossibile non cogliere una continuità di lungo periodo che salda le azioni del Napolitano presidente alle sue battaglie di lungo periodo, combattute già nel Pci, contro l’anomalia italiana – la presenza di una radicata forza e cultura comunista, di un forte movimento sindacale di classe, di una consolidata pratica della partecipazione democratica di massa – nel consesso delle potenze atlantiche.

Ma quelle battaglie, legittime dalle file di un partito, il presidente non può e non dovrebbe più permettersele. Che lo faccia è gravissimo, non soltanto per le conseguenze immediate dei suoi atti, ma anche per la degenerazione del ruolo che ricopre. Sul punto la Costituzione è stata fortemente sollecitata negli ultimi decenni. Ha influito persino una figura carismatica come quella di Pertini. A stravolgere le regole provò Cossiga, che venne tuttavia fermato. Anche il protagonismo di Scalfaro fu una novità, solo in parte giustificata dai grandi mutamenti seguiti alla cesura storica del 1989-91. Oggi la maggiore responsabilità di Napolitano sta nell’avere esasperato la tendenza alla politicizzazione del proprio ruolo, oltre che nell’assecondare la corruzione della forma parlamentare di governo verso la finzione dell’elezione diretta dell’esecutivo. Nel quadro di un ordinamento che ciò non prevede e che ne risulta quindi scompensato e gravemente squilibrato.

C’è, a questo punto, da sperare che gli eccessi degli ultimi giorni aprano finalmente gli occhi a molti, un po’ come sta accadendo con le «riforme» renziane che Napolitano caldeggia ma di cui viene emergendo sempre più chiaramente la ratio antidemocratica. Perché questo avvenga bisogna che un sussulto scuota anche il corpo largo dei partiti maggiori, non soltanto le minoranze dissidenti, alle quali va comunque il plauso per la battaglia che stanno conducendo. Che ciò accada oggi è difficile, a ragion veduta quasi impossibile; ma non si sa mai. Le strade della virtù civile non sono infinite come quelle della provvidenza, ma nemmeno si può escludere che alla fine responsabilità e dignità prevalgano.