Tutti i tratti tipici della scrittura di Patrick Modiano si rivelano immediatamente riconoscibili al lettore che abbia familiarità con i suoi romanzi e si immerga nel titolo appena tradotto da Einaudi, L’erba delle notti – in realtà il penultimo lavoro dello scrittore francese, pubblicato nel 2012 (Einaudi, traduzione di Emanuelle Caillat, pp. 136, euro 18,00), che esce a pochi mesi dall’assegnazione del Nobel. Tanto gli ambienti (la Parigi del dopoguerra e quella attuale, con qualche incursione nella Parigi del ‘700) quanto i personaggi (nottambuli dal passato oscuro e dal futuro incerto) sono immersi in un’atmosfera allucinata e tesa. Il racconto riguarda un uomo di cui conosciamo solo il nome, Jean, che investiga sul proprio passato e tenta di rintracciare notizie su una donna conosciuta cinquant’anni prima. La donna gli si era presentata con il nome di Dannie ma, come di regola nei romanzi di Modiano, nulla della sua persona risulta univoco: il nome, le origini, la professione, la residenza, gli amici che frequenta.
Ogni elemento legato a lei presenta evidenti caratteri di controvertibilità. Un taccuino nero pieno di appunti guida i suoi ricordi, ma quelle pagine, come una fotografia sgranata, non solo non gli rivelano quanto è accaduto, ma diventano esse stesse parte dell’enigma di una vita vissuta come in trance. Anche in questo romanzo Modiano organizza una narrazione dai contenuti difficilmente definibili, ed esplicitamente il narratore tematizza l’ambiguità di ciò che ha vissuto, percepito come ‘varco’ tra la veglia e il sogno. Ciò che viene espresso ha poco a che fare con ciò che effettivamente è accaduto.
Il taccuino nero diventa una parte dell’allegoria: tanto più precise sono le annotazioni tanto meno conoscibile è la realtà cui esse rinviano. Nomi di strade, di piazze, di hotel, di caffè diventano il punto di fuga dal quale lo sguardo dell’osservatore si allontana. La qualità allucinatoria, anzi, si sostanzia proprio a partire dalla minuziosità con cui i particolari vengono nominati e coerentemente allineati. Infatti, non appena abbiamo un itinerario, un indirizzo, una asserzione, questi diventano leggibili come segnaletica di evidente depistaggio. Dannie vive per un certo tempo nella Cité Universitarie, padiglione Stati Uniti, ma non è affatto probabile che sia una studentessa americana. I suoi documenti non sono suoi, possiede chiavi di appartamenti in cui si introduce con fare furtivo, ma all’interno dei quali si muove con piena padronanza.
Anche in questo libro, come già in altri di Modiano, ci sono seri indizi che i due personaggi principali abbiano la facoltà di oltrepassare la barriera del tempo e di vivere contemporaneamente più situazioni. Quando Dannie si sofferma a definire la propria condizione sull’alternanza lessicale morta/scomparsa e quando Jean dice che torna indietro nel tempo, cinquant’anni oppure un secolo, al lettore arriva l’informazione che queste creature non appartengono pienamente alla realtà storica nella quale si muovono, bensì presentano la consistenza di doppi, anime erranti condannate a seguire un destino segnato. Tornano dunque anche qui i motivi legati all’occultismo e alle vie segrete che potenziano lo stato di consapevolezza. Due le qualità del tempo: uno è immobile, eterno, dove ciò che accade resta per sempre uguale e inconoscibile; nell’altro, mutevole e misurabile, ciò che accade risulta evanescente. È proprio questa condizione a dare ai personaggi l’aspetto di ‘stranieri’, individui che si risvegliano in un corpo che non riconoscono come proprio, in una città modificata rispetto ai loro ricordi, a comporre uno still life a grandezza naturale. Sono persone che non agiscono, ma sembrano sostare sulle pagine di questo autore come profughi in cerca di momentaneo rifugio (parola chiave presente nelle prime pagine del romanzo).
Come nei quadri di Edward Hopper, la realtà è colta in tutti i suoi particolari ma i personaggi si trovano in uno stato di eterna sospensione, condannati a vivere una perenne non-vita. Non più e non ancora, privati della possibilità di scegliere, eternamente debilitati, il puro ex-sistere che congela l’individuo in una vertigine e lo consegna a una protratta percezione dell’assurdo, il dasein che sostanzia il trattato fondamentale di Heidegger, matrice e causa prima di quell’esistenzialismo nel cui perimetro spesso l’opera di Modiano è stata inscritta.
Le descrizioni di cose e persone sono precise tanto che il lettore ha appunto l’impressione di vedere nitidamente ciò che accade e gli pare quasi di assistere a una scena allestita con ogni cura: oltre a essere un lascito dell’attività di sceneggiatore svolta da Modiano, questo dettaglio assume una connotazione precisamente letteraria: quanto accade è chiaro, ma sfugge completamente il senso e la direzione di marcia dei fatti. Come in un treno che corre nella notte: il viaggiatore è lì ma non afferra nulla di quei luoghi in cui pure è presente. Allo stesso modo Jean è davanti a Dannie ai suoi amici: i loro sono messaggi criptati di cui non possiede la chiave.
Ci sono due oggetti importanti legati a due momenti decisivi: la lampada accesa e il faldone giudiziario intestato a Dannie. Potrebbero essere elementi rivelatori, atti a suffragare l’identità della donna e invece in entrambi i casi rilanciano il gioco in direzione imprevista. La lampada, che viene accesa intenzionalmente nel corso di un’incursione nella casa una volta dimora di Dannie, costituisce un segnale che rende visibile la visita e che insieme testimonia la qualità momentanea di una presenza, spezza il buio della notte parigina e lo trasforma nella pagina scritta di un messaggio diretto a invisibili osservatori. La lampada viene lasciata accesa nell’appartamento e quella luce in un appartamento disabitato diventa un segno e comunica due contenuti contraddittori: una presenza (prima era spenta) e un’assenza (rimane accesa anche dopo che i due giovani hanno lasciato l’appartamento). Due messaggi logicamente incompatibili se analizzati all’interno di riferimenti orientati in senso diacronico, un solo messaggio autentico e indecidibile se la medesima situazione viene letta all’interno di un quadro di riferimento diverso dalla logica, se osservato cioè nel contesto di un tempo immobile, dove le situazioni non possono essere assoggettate ad alcuna trasformazione, ma sono e rimangono eternamente immobili e inafferrabili.
Non stupisce allora che la ragazza, con un’alzata di spalle, affermi: «Penseranno che è stato un fantasma». E qualche pagina dopo: «Oggi sono convinto che non si trattava né di dimenticanza né di negligenza, ma che al momento di andarcene ero io ad accendere di proposito una lampada. Forse per scaramanzia, per scongiurare la malasorte e soprattutto perché rimanesse una traccia di noi, un segnale che indicasse che non eravamo davvero assenti e che un giorno o l’altro saremmo tornati».
Dunque è espressamente confermata la serie di tratti distintivi di Modiano: personaggi privati della legittimità di esistere, l’ombra di una colpa lontana e non riparabile (è noto che il padre dell’autore fu un ebreo antisemita e collaborazionista nella Parigi occupata). Sulla scena vediamo stagliarsi figure senza un’ipotesi di futuro che subiscono inerti i moti impressi alle loro traiettorie con la stessa docilità con cui i punti geometrici sono mossi da un matematico all’interno di uno spazio dato (com’è altrettanto noto, l’autore è stato allievo e poi amico di Raymond Queneau). La perfezione formale di un linguaggio essenziale e nitido sostiene come sempre un eterno ritorno al passato che non si apre al senso e dai cui nodi non è permesso districarsi. Nessun ‘documento’, neanche il più autorevole, fosse pure un faldone estratto dagli archivi della polizia, può costringere la realtà a rivelare il suo vero volto. Che resta quello allegorizzato da una lampada rimasta accesa a illuminare una finestra sconosciuta.