Dovevano essere le ore più dolci, dopo giorni e notti di raid aerei, tiri di artiglieria e cannoneggiamenti dal mare. Sono state invece le ore più amare. La tregua temporanea, ieri dalle 8 alle 20, concessa dal governo Netanyahu (e poi prolungata fino a mezzanotte) allo scopo evidente di tamponare l’impatto internazionale del secco rifiuto di Israele della proposta di cessate il fuoco formulata dal segretario di stato John Kerry, ha rivelato le proporzioni dell’attacco devastante che dall’8 luglio sta subendo la popolazione civile di Gaza. Migliaia di persone, approfittando della tregua, nel caos di taxi collettivi stracolmi e carretti tirati dagli asini, si sono dirette verso casa. Molte hanno scoperto che la loro abitazione non esiste più e che non hanno più nulla. Beit Hanoun, Shujayea, Khuzaa, Abasan sono solo alcuni dei centri abitati palestinesi dove è passata la furia devastatrice delle forze armate israeliane. Migliaia di case ora sono un cumulo di macerie o sono state danneggiate in modo irreparabile. Migliaia di famiglie sono precipitate nella disperazione più totale. Madri in lacrime, uomini feriti e arrabbiati contro di permette tutto questo, bambini strappati alla sicurezza di quattro mura dove dormire e giocare. Questa umanità ferita nell’animo, si aggirava ieri tra le rovine di case, palazzi, strutture pubbliche, tra le carcasse di cavalli, asini e altri animali morti, avvolta in una insopportabile puzza di cadavere. In poche ore i soccorritori ieri hanno estratto dalle macerie quasi 90 corpi di palestinesi uccisi nei giorni scorsi, alcuni di combattenti molti altri di civili travolti e sepolti dalle case centrate dalle cannonate. Il bilancio totale di morti palestinesi è schizzato in un attimo a oltre 1000.

 

In questa fascia di territorio di Gaza persino gli ospedali, a cominciareda quello di Beit Hanun, non sono stati risparmiati e portano i segni dell’attacco. «Perchè ci hanno fatto tutto questo, siamo esseri umani, nemmeno le bestie sono trattate così. Non abbiamo più nulla, hanno distrutto casa mia e quella dei miei figli, dove andremo ora, dove vivremo», ripeteva ieri singhiozzando una donna di Beit Hanun, alzando le braccia al cielo. Più a sud, a Maghazi, Salah un padre di famiglia cercava di trovare una spiegazione al lancio di un missile contro la sua abitazione in piena notte, che solo per un miracolo non ha ucciso i suoi tre bambini. «Un tempo vivevamo a Giaffa – ci ha raccontato – nel 48 siamo stati cacciati via dalle nostre case e siamo diventati profughi. Da allora fino ad oggi, mio padre ed io siamo stati in grado di costruire solo questo palazzo, lo abbiamo fatto con le nostre mani per i nostri figli. E l’altra notte in un attimo Israele ha distrutto tutti i nostri sforzi. Noi palestinesi – ha aggiunto – vogliamo vivere liberi e in dignità. Perchè Israele non lo capisce, come fa Netanyahu a non comprendere che nessuno può vivere da schiavo».

 

Nei centri abitati meno colpiti regna la paura di una estensione dell’offensiva israeliana che potrebbe portare carri armati e fanteria dentro le aree densamente popolate. Lungo la costa si temono le cannonate della Marina e si vive nell’incubo dell’inizio di incursioni di commando dal mare. Scenari improbabili, perchè i comandi militari israeliani sanno che portare truppe e mezzi blindati in profondità nei centri palestinesi, potrebbe significare un aumento verticale delle perdite, ben oltre i 40 soldati morti in combattimento subiti sino ad oggi. I civili palestinesi però si aspettano di tutto. Quanto è accaduto nei 19 giorni di offensiva israeliana induce a non fare previsioni, a non dare per scontato nulla.

 

Ieri mattina, ad esempio, poco dopo le 7.30, quindi pochi prima dell’inizio della tregua, un missile sganciato da un aereo ha ucciso quattro palestinesi nell’area di al Maghazi. Qualche ora prima il dramma più grave degli ultimi giorni assieme al bombardamento della scuola Unrwa di Beit Hanun: è stata sterminata a Bani Suheila un’altra famiglia, gli al Najar. Una bomba ad alto potenziale ne ha uccisi 18, tra i quali diversi bambini. Il capo famiglia era un leader di Hamas? «Ma quale capo di Hamas, padre e figli vendevano polli e uova, era una famiglia povera senza alcun interesse per la politica, li conoscevo bene, pensavano solo a sopravvivere», ci spiega Sami Abu Omar che vive ad appena 50 metri dall’abitazione polverizzata, assieme ai suoi abitanti, dalla bomba sganciata dall’aviazione israeliana. In quasi tre settimane segnate da stragi e distruzioni senza precedenti, c’è una buona notizia, anche se è buona solo a metà. A Deir al Balah, nell’ospedale dei Martiri di al Aqsa – colpito la settimana scorsa da un missile – i medici sono riusciti a far nascere con un parto cesareo una bimba e a tenerla in vita, mentre la madre era morta a causa di un bombardamento israeliano avvenuto poco prima. Nella notte fra giovedi e venerdì la casa di Ibrahim al Sheikh è stata stata investita dall’onda d’urto di due bombe sganciate da un F-16. L’uomo era rimasto ferito mentre la moglie incinta, Shaima, è morta sotto le macerie. I vicini sono riusciti a recuperare il corpo della donna e a trasportarlo all’ospedale locale dove i medici sono riusciti a salvare la bambina, che è in condizioni critiche ma con buone possibilità di sopravvivere.

 

Solo chi conosce l’importanza, il significato che la casa, anche la più misera, ha per ogni palestinese poteva concepire e realizzare una punizione tanto pesante. Il governo israeliano, all’unanimità e con l’appoggio del leader dell’opposizione, il laburista Isaac Herzog, continua a rifiutare una tregua permanente – ad eccezione di quella anti-Hamas proposta dall’alleato presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi – e ripete che il suo unico scopo è quello di colpire Hamas, i suoi combattenti, impedire i lanci di razzi e distruggere la rete di gallerie sotterranee costruita dagli islamisti armati. Una intenzione che sul terreno trova solo un riscontro parziale perchè nella fascia che da nord va a est fino a sud di Gaza, i civili palestinesi hanno pagato il prezzo più alto, con o senza gallerie sotterranee. Israele sta allargando la “buffer zone” e quelle migliaia di case distrutte non saranno più ricostruite.

 

Qualcuno ieri paragonava Beit Hanun e Shujayea a una terra colpita da un terremoto. A noi invece Gaza ricorda la Jenin nel 2002, quando metà del campo profughi venne cancellata dall’assedio israeliano durato oltre due settimane, o le mille e più case di Rafah abbattute dai bulldozer militari lungo la frontiera con l’Egitto nel 2003. Beit Hanun ha subito la stessa sorte di Nahr al Bared, spianato dall’artiglieria libanese nel 2007. Il paragone piuttosto corre veloce a Tal al Zaatar (1976) e Sabra e Shatila (1982). Tutte brutali punizioni subite da popolo palestinese, colpevole di ribellarsi all’oppressione israeliana e alle politiche dei “fratelli arabi”, di non rassegnarsi alla sua condizione e responsabile di reclamare ancora i suoi diritti.

 

Ieri sera si moltiplicavano le voci di un possibile prolungamento ad oggi del cessate il fuoco, sull’onda dell’appello lanciato dal mini vertice di Parigi dai ministri degli esteri di Francia,Usa, Italia, Qatar, Turchia, Germania ed altri paesi, affinchè la tregua temporanea tra Israele e Hamas, fosse prolungata per «24 ore rinnovabili». «Tutti vogliamo ottenere il più presto possibile un cessate il fuoco duraturo e negoziato che risponda ai bisogni legittimi israeliani in termini di sicurezza e ai bisogni legittimi palestinesi in termini di accesso e di sviluppo socio-economico», ha spiegato il ministro degli esteri francese Fabius. Le tregue rinnovate di giorno in giorno servono a poco. Accanto ad un cessate il fuoco immediato, è necessaria la revoca definitiva e completa dell’embargo israeliano ed egiziano che ha fatto di Gaza una prigione e dei suoi abitanti dei condannati a vita.