Ideadestroyingmuros, collettivo femminista, transculturale e di militanza poetica, mette al centro della propria riflessione l’elaborazione dei processi geo-politici attraverso il proprio vissuto. Nella scrittura utilizzano sempre il carattere minuscolo come «segno di un divenire minoritario possibile che inizia dall’estetica della frase». Dal 2005 invenzione e dislocazione compongono così la cifra politica scelta dal gruppo che vive in diversi paesi europei e che crea progetti attraverso fitte corrispondenze e momenti di vita condivisa. L’ultimo è stato in occasione della mostra archipelaghi in lotta – le isole postesotiche, accolta nel maggio scorso all’università di Paris8, che tuttavia risponde a una narrazione più ampia cominciata nel 2013 e che Rachele Borghi si sta impegnando a ospitare in autunno nel luogo in cui insegna: la Sorbona.

Voi scrivete che «exotique (…) descrive un’economia e ci proietta immediatamente nelle relazioni neocapitaliste tra le multinazionali e i popoli». Come mettete in scena le vostre isole post-esotiche e che cosa significano per voi?

Sin dall’inizio ci era chiaro che l’esotico fosse una dimensione dell’immaginario e un genere di rappresentazione delle relazioni neocoloniali. Ci interessava perché mostrava l’intreccio tra le politiche internazionali, le economie, le migrazioni, e le percezioni di sé e delle alterità.
Pensare il postesotico dell’arcipelago mira a rendere visibili i conflitti, le resistenze e lo sfruttamento che intercorrono tra capitali e isole, decostruendo l’immagine selvaggia incontaminata e sensuale a cui ogni isola è ridotta. L’esotico mantiene i mondi lontani e li connette gerarchicamente, permettendo all’occidente di cercare un luogo altro dove imporsi, una cultura altra per assolversi, una spiaggia per dimenticare la propria storia e il proprio quotidiano. la deresponsabilizzazione è consentita perché i mondi sono considerati separabili. il turismo è un esempio lampante di questa politica. Cucire l’arcipelago è stato un modo per rappresentare immaginari ed economie postesotiche. Le isole hanno forme corporee e vegetali, lingue meticce, cerniere aperte per un’omertà rotta, bocche vulcaniche. Hanno gambe per partire, mani per dire al mondo capitalista che si fotta e autoimploda. Le isole sono dei luoghi di resistenza e, quindi, di nascita. postesotico è creare delle alternative ai circuiti economici capitalisti.
Creare le isole ha significato inventare forme sostenibili di incontro, di scambio, di sopravvivenza. Per fare qualche esempio, tutto il materiale usato è stato recuperato attraverso canali di circolazione gratuita di vestiti, abbiamo potuto contare sull’ospitalità e la generosità di amiche e amici, sull’accoglienza presso lo spazio artistico autogestito «shakirail». per noi il soggetto povero è un’isola che s’intreccia ad altri soggetti-isole nella stessa condizione per formare un arcipelago-moltitudine, per ribellarsi al meccanismo di assorbimento neocapitalista basato sulla rivincita: i poveri, i soggetti oppressi ed esotici, con l’obiettivo di riprendersi tutto ciò che è stato loro tolto, sviluppano delle rabbie e delle tensioni di autoaffermazione che spesso il capitalismo sfrutta e che finiscono, dunque, per confermare gli assetti di potere. Le isole hanno il compito di rompere queste dinamiche, di assumersi la responsabilità della produzione delle rappresentazioni prima che siano assorbite, di rigenerare continuamente le strategie.
La frase chi perde trova – che è l’incrocio tra i proverbi chi cerca trova et qui perd gagne (qui perde vince) – riflette questa spinta di cambiamento di paradigma: che tutte le persone la cui storia è segnata da una perdita trovino; che perdere, per chiunque, in ogni caso, è una possibilità: non di vincere ma di trovare. l’ arcipelago sospeso e realizzato a Paris8 è immaginario ma ha preso esistenza a partire dalle nostre storie di perdita: da Lošinj, un’isola dell’arcipelago del Quarnero, e dalla Sicilia e i suoi arcipelaghi. Due isole su cui ha vinto, in modi diversi, il capitale e in cui oggi ci ricollochiamo per creare una prospettiva critica e geopolitica contro occidentale.

Come hanno reagito negli spazi universitari al vostro ordito materiale, affettivo e disobbediente?

Le isole hanno fatto irruzione nell’università occupandola come una tempesta. quando abbiamo proposto l’esposizione la responsabile della sicurezza era in allerta. Ci ha posto una serie di vincoli, paventandoci la possibilità di azioni vandaliche (scioglimento dei nodi, incendio) che le isole avrebbero potuto subire e persino il rischio che sospenderle nella corte interna del terzo piano avrebbe rappresentato una incitazione al suicidio.
Ogni tempesta diventa un evento da cui può nascere una trasformazione solo se si è disposti a viverla. Vivere la tempesta è stata una pratica interna ed esterna al lavoro del collettivo. Quando abbiamo scritto «se gli arcipelaghi sono la geografia di come siamo, oggi è il giorno della tempesta» eravamo all’interno dell’atelier di cucito. La tempesta che ci ha travolte è stata una discussione in cui abbiamo cercato di chiarire i modi in cui la rappresentazione delle isole potesse corrispondere alle nostre vite.

Che senso ha la tempesta?

La tempesta ha attraversato gli spazi dello squat perché l’università è un luogo che non la prevede, dal momento che non prevede la vita. L’università ha la funzione di assorbirla attraverso la ricerca, mentre la tempesta, dato che il mondo non è un’aula bianca, cambia il paesaggio e trasforma le nostre vite in ciò che vorremmo siano. L’università non reagisce, assimila e sfrutta, le isole si calmano, ascoltano, accumulano la determinazione e la spargono altrove. investendo l’università francese e parigi abbiamo cercato di fare in modo che questo altrove coincidesse con uno dei centri che le rende subalterne, dipendenti e riconoscenti al/la capitale.

Punto centrale sia in questo progetto che nel vostro lavoro, è la sessualità. In che modo le isole ricordano la sessualità?

La nostra prospettiva riguardo la sessualità si situa in relazione al contesto europeo bianco occidentale.  In questo contesto le donne e gli uomini si possono considerare soggetti che godono di privilegi bianchi maschili mentre chi proviene da est e sud dell’Unione europea è sottoposto a varie forme di femminilizzazione. Creare il nostro essere donne, quindi, implica entrare in relazione con questi processi di femminilizzazione, capire come ci attraversano.
Creare nella prospettiva del postesotico ha implicato ripensare le corrispondenze tra l’esotico e l’erotico. Don’t wanna be your erotic, dont’t wanna be your exotic scrisse S. Hammad, una poetessa di Brooklyn figlia di rifugiati palestinesi, contro le rappresentazioni orientaliste e sessualizzanti prodotte negli iuessei sulle persone e sui luoghi che rappresenta.
Essere consapevoli della dinamica coloniale che riconosce la forza sessuale per sottometterla e per trarne profitto, emotivo o economico, è un passaggio necessario per l’indipendenza delle isole. Eppure rischia di essere depotenziante se l’esito di questo processo di liberazione è la desessualizzazione. La visione postesotica si propone di riconoscere la forza sessuale delle isole, di rappresentarla in modo non innocuo e potente.
Se all’esotico corrisponde l’erotico, al postesotico corrisponde l’amore. Nelle nostre giornate ha significato entrare in crisi rispetto alle esperienze e percezioni dei nostri corpi in relazione ai corpi «neri» e ai corpi «bianchi», vivere delle pratiche di incontro, dei rapporti d’amore complessi in cui abbiamo fatto irrompere il riscatto, la perdita, il conflitto geopolitico.
Le trecce che connettono le isole tra loro e alla balconata hanno la forza di rappresentare le tensioni tra i territori corporei e politici: si annodano, si sfregano, si sostengono, uniscono, rischiano di sciogliersi, però resistono.
Le tensioni fanno delle isole un arcipelago in lotta.