La crisi economica e politica dei paesi del capitalismo storico, dalla quale sembra sempre più difficile uscire, è una crisi di sistema, come è stato sottolineato da molti e come appare tanto più evidente quanto più se ne analizzi il processo storico con il punto di svolta nei primi anni Settanta. La società dei consumi esaurisce la sua spinta propulsiva senza che appaia possibile la sua esportazione in paesi del Sud del mondo.

Il segno più evidente e significativo è consistito in un netto calo dei tassi di profitto protrattosi per tutti gli anni ’70 nei paesi più industrializzati. Sia negli Stati uniti che nella media riguardante Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia, la diminuzione dei tassi di profitto rispetto al capitale investito è stata di circa 5,5 punti percentuali tra il 1970 e il 1980: una discesa pesante difficile da arrestare con misure congiunturali e interventi tradizionali.

A quel punto, i maggiori gruppi imprenditoriali, di qua e di là dall’Atlantico si sono trovati di fronte ad un bivio. Da un lato, era possibile riguadagnare i margini di profitto perduti innovando metodi di produzione, tipi di prodotti e organizzazione del lavoro. Ma ciò implicava maggiori e più coraggiosi investimenti, nonché mutamenti nei sistemi di vita (abitazioni, trasporti, comunicazioni, beni d’uso personale, domestico, ecc.) che avevano caratterizzato la società dei consumi nei decenni precedenti. Dall’altro lato, si poteva ricorrere a scorciatoie e soluzioni più facili senza cambiare scenari e rapporti sociali. Si è imboccata la seconda strada, e le risposte alla crisi sono state di tre ordini.

La prima ha dato luogo ad una massiccia delocalizzazione delle attività produttive in paesi in via di sviluppo dove era possibile lo sfruttamento di manodopera a basso o bassissimo costo, nonché sfuggire ad obblighi fiscali e vincoli ambientali. L’entità del fenomeno è stata e continua ad essere molto maggiore di quanto si lasci trapelare. Nel 2015 in Italia gli investimenti diretti all’estero, fatti da imprese non finanziarie, sono stati pari al 25% del Pil, in Francia hanno raggiunto il 51%, in Germania il 42%. In Gran Bretagna gli investimenti all’estero hanno rappresentato il 54% del Pil. Perfino negli Usa, paese che si suppone centripeto più che centrifugo, sempre nel 2015, gli investimenti diretti all’estero sono equivalsi al 33% del Pil. E’ chiaro che una delocalizzazione produttiva di queste proporzioni ha comportato milioni di posti di lavoro in meno nei paesi d’origine.

La seconda risposta ha riguardato un’automazione senza precedenti della produzione di beni e servizi, resa possibile dalla rivoluzione microelettronica. Com’è ben noto, i portati di quella rivoluzione sono stati straordinariamente innovativi nei settori dell’informazione e della comunicazione. Mentre le applicazioni introdotte nelle tecnologie produttive hanno obbedito alla stessa logica che ha caratterizzato tutta l’età industriale fin dall’introduzione del telaio meccanico. Una logica volta a ridurre la manodopera occorrente ad una stessa quantità produttiva, a favorire l’impiego di quella meno qualificata e, perciò, più facilmente intercambiabile e precaria, nonché meno remunerata. Automazione spinta e delocalizzazione si sono poi intrecciate nel facilitare l’impiego di forza lavoro non qualificata e sottoposta al massimo sfruttamento nei paesi meno sviluppati.

La terza risposta ha visto un progressivo e rapido spostamento degli investimenti dalla produzione alla speculazione finanziaria.

Contemporaneamente si è assistito anche ad una progressiva finanziarizzazione delle imprese dei più diversi settori. Ben presto lo scopo principale delle aziende è diventato quello di soddisfare le esigenze e aspettative degli azionisti. Il che ha condotto ad una valutazione dei risultati delle aziende in base all’apprezzamento maggiore o minore dei loro titoli finanziari, invece che sulla base dei risultati raggiunti in termini propriamente produttivi e di mercato. D’altro canto la rincorsa alla concentrazione tecnico-produttiva in rapporti di scala sempre più ampi ha ulteriormente rafforzato il ruolo del capitale finanziario in tutti i settori.

Queste tre risposte alla crisi degli anni ’70 si sono andate ben presto affermando fino a diventare le strategie principali della ristrutturazione capitalista nell’ultimo trentennio.

Tutto ciò è stato reso non solo possibile, ma apertamente favorito dalle politiche neoliberiste inaugurate nei primi anni ’80 dai governi conservatori della Thatcher e di Reagan. Politiche che hanno trovato sostanziale continuità nell’azione di governo dei vari Blair, Schröder e degli altri becchini della socialdemocrazia europea, in tandem con l’amministrazione Clinton, a partire dalla seconda metà degli anni ’90 fino agli epigoni e alle nanocrazie attuali. Questi ultimi rappresentano il terzo gradino del crescente asservimento della politica agli interessi dei maggiori gruppi economici, sotto il segno dei governi di larghe intese o di falsa alternanza succedutisi in Italia come in altri paesi europei.

Né c’è bisogno di sottolineare il peso esercitato dalle istituzioni economiche e politiche internazionali, dall’Unione europea al Fondo monetario internazionale, fino alla Nato, nel tenere ben saldo il controllo sul blocco di potere che domina lo scenario internazionale.

Va invece ricordato che, proprio grazie ai tre assi portanti della ristrutturazione tardocapitalista prima indicati, i paesi di più antico sviluppo hanno stabilito solide alleanze con i gruppi dominanti tradizionali e i nuovi ceti in ascesa in grandi paesi dell’Asia, Africa e America Latina inducendoli a perseguire modelli di sviluppo e processi di modernizzazione affatto simili. E là dove tali allineamenti hanno incontrato resistenze, si è ricorso ad ogni tipo di pressione, economica, politica e, all’occorrenza, militare.

Il risultato è un sistema di potere economico, finanziario, tecno-militare, politico e mediatico, tanto concentrato, quanto esteso e pervasivo. Tuttavia anch’esso presenta instabilità critiche, squilibri, contraddizioni e perfino spinte autodistruttive sulle quali occorre far leva per la costruzione di alternative necessarie e possibili. Ma è proprio questa la non facile analisi da compiere e di cui non siamo che all’inizio come anche nella individuazione di nuove forze e forme di lotta.