Come 1913. L’anno prima della tempesta di Florian Illies (Marsilio 2013), L’estate dell’amicizia di Volker Weidermann, da poco uscito da Neri Pozza nella bella traduzione di Susanne Kolb (pp. 158, euro 15,00) il via da una parentesi temporale: l’estate del 1936. In Germania si parla già della nascita di un «genere narrativo» legato alla ricostruzione romanzata di un determinato contesto culturale, ma Weidermann vuole spingersi oltre l’aneddotica, e ci riesce.
Attraverso quella feritoia di tempo, e tenendo in primo piano l’amicizia tra Joseph Roth e Stefan Zweig, si addentra in uno degli ambiti più scottanti della cultura tedesca del Novecento, la cosiddetta «letteratura dell’esilio», ovvero la compagine di quegli scrittori antinazisti che dopo la presa del potere di Hitler, e il rogo dei libri nel 1933, decise di, o fu costretta a, pubblicare all’estero. Weidermann – giornalista della Frankfurter Allgemeine Zeitung e dello «Spiegel» nonché autore di un’importante biografia di Max Frisch – ci offre il panorama incompleto ma molto ben documentato di un ambiente culturale germanofono piuttosto negletto nella stessa Germania, anche se molti esponenti di quella diaspora forzata sono tra gli scrittori tedeschi più conosciuti del secolo scorso.
Si tratta di una comunità molto eterogenea e litigiosa che fino al 1940, anno dell’occupazione nazista del Belgio e dell’Olanda, ha come punto di riferimento editoriale un settore autonomo della casa editrice olandese Allert de Lange di Amsterdam diretto da Walter Landauer e, sempre ad Amsterdam, la Querido Verlag, diretta da Fritz Landshof, che pubblica la principale rivista degli esuli, «Die Sammlung» diretta da Klaus Mann. Una comunità che il lettore incontra parzialmente a Ostenda in un clima quasi spensierato e che finirà in gran parte autodecimata (si pensi soltanto al suicidio di Zweig, di sua moglie Lotte, di Ernst Toller, dello stesso Klaus Mann e alla morte per alcolismo e povertà di Roth, colpito da una polmonite subito dopo aver avuto notizia del suicidio di Toller, nel 1939). Come sottolinea Weidermann nelle ultime pagine del libro, citando Hermann Kesten, uno dei pochi sopravvissuti, la comunità degli esuli fu infatti rimossa dalla letteratura dominante nell’immediato dopoguerra: «In un bilancio del 1965 sulla letteratura tedesca, (Kesten) si lamentava del fatto che i nuovi autori tedeschi mostravano “una certa intolleranza verso gli scrittori un tempo in esilio, non li annoveravano più tra i rappresentanti della letteratura tedesca o li ghettizzavano. In effetti, alcuni di loro, ovvero quelli che sono ancora in vita, sono un po’ suscettibili”»
Con uno stile discreto e solo a tratti nostalgico, che lascia trasparire l’importante lavoro documentario – tra le tante citazioni da diari e lettere, vanno senz’altro segnalate quelle dal carteggio Roth-Zweig, uscito un anno fa in Germania, che sarebbe importante vedere pubblicato anche in italiano – Volker Weidermann accompagna dunque il lettore sul fronte caldo dell’amicizia, tra due esponenti anomali ed estremi della comunità degli esuli. Da un lato Stefan Zweig, ebreo di famiglia assimilata e molto benestante, nato a Vienna nel 1881, autore di successo, proprietario di un castello, uomo di mondo, che nel 1936 non si è ancora rassegnato (come peraltro Thomas Mann) a pubblicare con gli editori dell’esilio. Addirittura, dovendo rinunciare al suo editore tedesco, passerà, scrive Weidermann «alla piccola casa editrice austriaca di Herbert Reichner che molti esuli denigrano definendolo “un ebreo protetto da Hitler”». Dall’altro lato c’è Joseph Roth, più giovane di Zweig di dieci anni e suo grandissimo ammiratore (la stima e l’ammirazione tra i due scrittori sono reciproche): un ebreo galiziano orfano di padre, girovago e scrittore prolifico che, pur lavorando molto, è costantemente al verde e per vivere fa affidamento sulla generosità di Zweig. «Due persone che stanno per precipitare» scrive Weidermann «ma che per un breve lasso di tempo trovano l’uno l’appiglio nell’altro».
Il cuore del romanzo è un tempo fermo dove le cose già sono accadute o devono accadere – Ostenda, luglio 1936 –, ma la narrazione comincia prima e offre al lettore continui scorci su tutto l’arco della decennale amicizia tra i due scrittori, fin dalla lettera che Zweig scrisse a Roth nel 1927 per complimentarsi del suo Ebrei erranti: «L’ebreo orientale che vive nella sua terra non sa nulla dell’ingiustizia sociale dell’Occidente; nulla del dominio che il pregiudizio esercita sui modi, le azioni, i costumi e le concezioni dell’europeo medio occidentale» scrive Josef Roth nel libro. «L’ebreo orientale guarda all’Occidente con una nostalgia che questo certamente non merita».
Se all’inizio c’è un abisso che separa l’ebreo orientale Roth e l’assimilato occidentale Zweig, sempre più col procedere del racconto, ci rendiamo conto che i due sono alla deriva su una stessa sponda, quella di un insormontabile esilio interiore. Nell’estate del 1936 Zweig è all’apice del successo, ma il suo mondo sta irrimediabilmente scomparendo: dal maggio del 1936 l’editore tedesco non pubblica più le sue opere: «il mercato tedesco è perduto e così anche l’Austria; la sua collezione, la sua magnifica casa (…)» scrive Weidermann, e soprattutto il matrimonio con Friderike, la sua prima moglie, è ormai agli sgoccioli. Da due anni Zweig ha una relazione con la sua segretaria Lotte Altmann, che sarà con lui a Ostenda in quel frammento d’estate e lo seguirà in esilio in Brasile e anche oltre. Roth invece è da tempo economicamente allo stremo: i suoi libri sono stati vietati in Germania già nel 1933 e, come se non bastasse, si è appena separato dalla compagna Andrea Manga Bell con la quale ha vissuto per sette anni.
Su insistenza di Zweig, che da anni lo aiuta, Roth, bevitore sempre più incallito, raggiunge Ostenda dove già ci sono, oltre al suo mentore, Egon Erwin Kisch scrittore e reporter «ebreo bolscevico», come lo definisce Zweig, con la moglie Gisela, e il «patrono di tutti i dispersi», lo scrittore galiziano Hermann Kesten. Proprio grazie a Kesten, Joseph Roth conoscerà, infatuandosene, la scrittrice Irmgard Keun, una donna che «non aveva portato speranza dalla Germania» scrive Weidermann, minuzioso, e mai noioso, nel riferire dettagli sui personaggi e sulle opere a cui stanno lavorando «ma al mondo degli esuli aveva dato energia, caparbietà e soprattutto grande entusiasmo, ormai perduto da coloro che questo mondo lo abitavano da più di tre anni». Giovane, bella, la Keun s’innamora del malandato Roth e per due anni, la durata della loro relazione, sembra disposta a seguirlo ovunque. Sono giorni di grande produttività, per la Keun, per Zweig e per Roth che occasionalmente si scambiano suggerimenti sulle reciproche scritture. Intanto nei caffè sul lungomare si parla della guerra di Spagna, di progetti editoriali e si spettegola degli assenti, come i fratelli Erika e Klaus Mann. Roth e la Keun si uniscono solo occasionalmente alla comunità degli esuli, cui appartengono anche il giornalista Arthur Koestler, il comunista Willi Münzenberg il drammaturgo Ernst Toller e la sua giovanissima moglie Christiane. In un clima vacanziero di sospeso oblio ci si da appuntamento come se ognuno, alla fine di quella divagazione dovesse ritornare «a casa». In realtà nessuno di loro ha più una casa dove tornare e salvo Roth, che riuscirà a ritornare per qualche mese nella sua Leopoli, tutti partiranno per altri più definitivi esili.