Dopo essersi occupato di Lance Armstrong (The Program), uno dei più grandi impostori della storia dello sport moderno, il regista inglese Stephen Frears con Florence Foster Jenkins torna nuovamente sul tema dell’ambizione e della vita, di ciò che si vorrebbe essere nei propri sogni e di quello che si è e si diventa nella realtà.

Presentato nella Selezione Ufficiale della Festa del Cinema di Roma e previsto in sala dal 22 dicembre, Frears consegna al pubblico un film tratto da una storia vera e ambientato nella New York del 1944, senza una particolare rielaborazione (sullo stesso soggetto, ma nella Parigi anni Venti, aveva già lavorato Xavier Giannoli con Marguerite), ma con la classe che contraddistingue sia il regista di Leicester, sia gli interpreti principali: Meryl Streep nel ruolo di Florence Foster Jenkins, la ricca ereditiera con la passione per la musica e per il canto (con generosità filantropica elargisce soldi anche ad Arturo Toscanini per i suoi concerti); Hugh Grant nella parte del marito di Florence, St Clair Bayfield, a metà tra l’opportunista che attraverso i beni della moglie riesce a vivere oltre quelle che sarebbero le sue reali possibilità di attore modesto, e un sincero amore che lo porta a trasformarsi con dedizione estrema nell’organizzatore degli spettacoli e, di fatto, nel creatore di un mondo fittizio intorno alla donna che vuole e riesce a cantare in pubblico nonostante sia del tutto priva di talento (stonata come una campana sarebbe più appropriato dire!); Simon Helberg (protagonista di The Big Bang Theory) nei panni del giovane pianista di grandi ambizioni, Cosmé McMoon, costretto a sopprimere con una serie di tic lo sconcerto, le risate al limite dell’isterico e la paura di vedere compromessa per sempre la sua reputazione, quando accompagna Florence nelle esilaranti lezioni di canto e nei concerti.

Nel film si ride di fronte alla bravura di Meryl Streep spaventosamente incapace di cantare. Ed è altrettanto divertente, e talvolta commovente senza abuso di retorica, vedere i personaggi di St. Clair e Cosmé intenti a coprire questo scempio dell’arte, pur di non privare una donna del suo modo immaginario di rappresentarsi. In fin dei conti, Florence non è una truffatrice fraudolenta come Armstrong.Nel mondo c’è una guerra e la New York di Florence fa fatica ad accorgersene. Il ritorno di alcuni soldati, però, induce la ricca ereditiera a voler realizzare l’impensabile: cantare in loro onore alla Carnegie Hall. Uno spettacolo destinato a tremila persone, tra cui Cole Porter, che mette in seria difficoltà St. Clair, fino a quel punto capace di tenere a bada critica e spettatori.Florence Foster Jenkins è un film rivolto inevitabilmente a un passato che si è estinto, di cui non si ha più traccia se non in qualche fotografia in bianco e nero e in qualche rara incisione in vinile. Quel tipo di vicenda oggi è irriproducibile, anche se spesso ci chiediamo come quel presunto artista riesca a ottenere consensi e celebrità.

Tuttavia, nelle frasi che St. Clair esprime per convincere Cosmé a suonare alla Carnegie Hall, ritroviamo improvvisamente alcuni tratti della nostra condizione esistenziale, quando inseguendo spasmodicamente un’ambizione rischiamo di perdere di vista la nostra vita. Non sappiamo se Cosmé abbia dato retta a St. Clair per opportunismo o perché si sia lasciato trascinare dall’attimo, dalla voglia di vivere. Ma è proprio in Cosmé, nei suoi tic e nei dubbi che stimola, che troviamo il personaggio con il quale dialogare oggi, come se parlassimo a noi stessi.