Forse l’Italia della nuova musica è troppo grande per avere un solo «uomo del giorno» e del resto Luca Francesconi non è certo un nome sconosciuto alle scene artistiche del nostro paese. È innegabile però che per il compositore milanese, classe 1956, questo sia un autunno d’oro. In pochi giorni fra il 3 e il 5 ottobre la creazione all’Accademia di Santa Cecilia di un nuovo pezzo Bread, Water and Salt (su testi di Nelson Mandela) poi Fresco, versione tutta nuova di un pezzo presentato in Galleria a Milano, per Milano Musica, e ancora una nuova prima a Colonia.
Cosa prova un compositore di oggi a confrontarsi con le orchestre di grandi stagioni musicali, con i loro riti e la loro tradizione?

L’orchestra resta una macchina meravigliosa, che regala un piacere quasi carnale; sono convinto che finora abbiamo sfruttato solo una piccola percentuale di potenzialità dell’orchestra, specie poi quando aggiungiamo strumenti e trattamenti elettroacustici. Naturalmente quando si scrive per una stagione ad abbonamento entrano in gioco altre considerazioni estetiche, ma deve rimanere comunque lo spazio per la sperimentazione. Certo, a Stoccarda ho scritto un pezzo per i Neuevocalolisten dall’impegno tecnico e fonetico diverso da quello che potrei chiedere al coro di Santa Cecilia. Si tratta di sfide diverse, ma si può sempre trovare il modo per parlare all’intelligenza ma soprattutto alla pancia del pubblico.

Qualcosa sta cambiando nell’atteggiamento del pubblico italiano verso la musica contemporanea? 

Penso di sì, siamo in molti a sentire nell’aria una maggiore curiosità. Forse il pubblico è anche stanco di una cultura pop molto mediocre: la cartina di tornasole è mio figlio di ventun anni che con la musica pop spesso si rompe le scatole. L’Italia ha molte potenzialità da esprimere, e in questo senso sono grato all’Accademia di S. Cecilia e a Pappano per aver preso con tanta serietà l’impegno di aprire la stagione con un pezzo contemporaneo, offrendomi per tre sere una sala piena e attentissima. A Colonia un altro mio pezzo eseguito in questi giorni, per due pianoforti e orchestra, aveva solo trecento persone di pubblico. A Roma, migliaia di persone, e così anche a Milano. Per merito di persone come Luciana Pestalozza a Milano il pubblico per la musica di oggi c’è, e i direttori artistici non dovrebbero sottovalutare l’intelligenza del pubblico.

Eppure lei agli inizi ha cercato la sua strada di musicista fuori dall’Italia. Perché?

Sono andato all’estero alla ricerca di maggiore libertà, sul piano estetico e di espressione, visto che nei ’70 in Italia ce n’era meno che altrove. Certo, la libertà ha un prezzo, anche in termini di sacrifici economici. Quando oggi mi accorgo che nel Belpaese si scoprono alcuni miei lavori nati all’estero mi viene da sorridere per la nostra inguaribile esterofilia. Intanto però ho imparato la miglior lezione: continuare a scrivere la musica che mi interessa. Per i giovani compositori invece è più difficile, specie sul piano estetico, e non è detto che le iniezioni di fondi, specie a pioggia, facciano di per sé bene, perché ne vedo i risultati narcotizzanti su alcuni allievi nordeuropei, ad esempio.

I prossimi impegni? 

Ho una tabella di marcia in tre tappe e sono già al lavoro: nel 2017 un’opera per l’Opéra di Parigi, ispirata alla Comédie Humaine di Balzac, in particolare al personaggio di Vautrin: un criminale ma anche un anarchico, una figura affascinante. Poi nel 2020 c’è una commissione del Covent Garden di Londra che forse sarà Timone di Atene e nel 2022 poi è prevista una nuova creazione all’Opera di Zurigo.