Di Emma Goldman, pensatrice, anarchica, femminista, immigrata e irriducibile rivoluzionaria, si è detto e scritto molto – con maggiore trasporto dagli anni Settanta in avanti. Eppure la figura di questa «piccola Giovanna D’Arco», come sovente veniva chiamata da qualche giornalista che ne aveva incrociato – e ne temeva anche un poco – la forza politica, abitava il terreno del mito fino dagli anni Trenta del Novecento. Fascinazione comprensibile, a percorrere la sua vita sembra di stare dentro un romanzo straordinario. Uno di quelli che ha come protagonista l’esistenza tempestosa di chi nasce già insorta, a cavallo tra due secoli, facendo parte della storia e scrivendola. La storia degli ultimi, degli operai e delle operaie con cui si confronta Emma Goldman, la storia che la trafigge anzitutto nella coscienza incarnata che la interroga sulla sessualità, sulla riproduzione e il controllo delle nascite, sul suffragio e tanto altro ancora.

La storia di cui ha fatto parte Emma Goldman è insomma quella che ha nutrito un pensiero anti-capitalistico e capace di raccontare cosa significa il fermento libertario, quali le sue genealogie, le sue scommesse, come l’anarchismo. E il suo incontro con il conflitto della classe operaia, l’antimilitarismo contro il fanatismo della prima guerra mondiale, la rivoluzione russa prima, la guerra civile spagnola poi. Forse una vita non basta per reggere tutto questo, quella di Emma sì.
Disfare l’affronto di essere nata donna per un padre ottuso e autoritario, è il modo in cui Goldman debutta nella decostruzione simbolica del già dato. Sceglie di rimettersi al mondo, lo fa numerose volte. La prima, come lei stessa scrive, è il 15 agosto del 1889 quando a vent’anni arriva a New York.
Da Kovno (l’odierna Kaunas), cittadina portuale della Lituania, se n’era già andata tempo prima per raggiungere la sorella Helena che abitava nel Connecticut. Lì Emma confeziona corsetti in una fabbrica e segue laboratori di cucito che poco dopo, oltre alla sopravvivenza, le avrebbero dato il senso della relazione con le lavoratrici del tessile.

Frequenta circoli radicali e di operai, studia, ascolta, scrive, legge moltissimo, stringe rapporti con alcuni esponenti del movimento anarchico. Trascorre qualche mese e la figura di questa giovane donna, dapprima misteriosamente comparsa su un carretto a Union Square a tenere un discorso e a resistere alle cariche della polizia, diviene centrale sia sui giornali che all’interno del movimento.
Proprio in quei primi comizi di piazza la si ricorda avvolta da una bandiera. Era rossa, da qui – insieme alla furia mostrata contro ogni potere costituito – la nominazione di Emma the Red. E proprio Emma la Rossa (eléuthera, pp. 223, euro 16, prefazione di Normand Baillargeon, traduzione di Carlo Milani) si intitola il volume di Max Leroy che ne ripercorre la parabola cominciando dal fulgore di quegli anni di apprendistato alla rivolta.

Appassionato e all’orlo di una festa del cuore verso chi ha speso la propria vita per la libertà e la giustizia, il libro di Leroy propone un ritratto puntuale, servendosi di un apparato bibliografico interessante che conduce lettori e lettrici sulle tracce di Goldman, di ciò che ha scritto – due le opere che si ricordano principalmente: My Disillusionment in Russia (1923) e Living My Life (1931), la sua autobiografia (si dica per inciso che entrambe sono state tradotte in Italia tra gli anni ’70 e ’80 da La salamandra. Di più recenti invece si segnalano Femminismo e anarchia, edito da Bfs con una splendida prefazione di Bruna Bianchi, e Anarchia e prigioni, edito da Ortica). Ulteriore pregio di Leroy è quello di aver tenuto conto della dedizione di biografi e in particolare biografe come Alice Wexler e Candace Falk (direttrice dell’Emma Goldman Papers Project che a Berkeley ha raccolto dal 1980 a oggi più di ventimila carte relative alla sua produzione e ai suoi scambi epistolari).

Se «lo Stato è un saccheggiatore al soldo del capitalismo», scrive convinta ripensando al suo arresto occorso all’età di 24 anni per incitamento alla sommossa, la maggiore oppressione viene inferta alle donne, ai bambini e alle bambine. Da quell’oppressione, gravida di nodi da sciogliere, e da alcune sue esperienze (non ultima quella di levatrice per cui segue un corso a Vienna), impara molto e si mette in cammino. Verso un femminismo che non la abbandonerà mai più; gli incontri più importanti sono due: quello con Voltairine de Cleyre, scrittrice e militante anarchica, e con Louise Michel, la «vergine rossa» deportata in Nuova Caledonia dopo la repressione della Comune di Parigi. Il resto è la lettura di Mary Wollstonecraft (così come nella sua formazione decisivi sono stati Henry David Thoreau e Michail Bakunin). Molti illustri esponenti del movimento anarchico la ammirano; da Johann Most, Edward Brady a Pëtr Kropotkin. A qualcuno concede di amarla.

In una lettera ad Aleksandr Berkman – compagno di lotte e presenza cruciale nella sua vita – nell’agosto del 1927, riesce a raccontare il tenore della sua differenza, quella in fondo che la sa consegnare alla gratitudine delle generazioni politiche successive: «Le sole teorie non sono sufficienti a smuovermi. Comprendere le nostre idee non è abbastanza. È necessario sentirle in ogni fibra come una fiamma, come una febbre divorante, una passione elementare».