Un brivido linguistico si è impadronito della ministra dell’Università Stefania Giannini quando sabato scorso, davanti a una platea dei giovani di confindustria a Capri, ha definito la modesta proposta di assumere 500 ricercatori italiani e stranieri dall’estero, automuniti di «gruzzolo» da regalare agli atenei affamati di fondi, «l’alta velocità della conoscenza» che creerà «500 cattedre di eccellenza». L’intero immaginario delle classi dominanti è contenuto in un’espressione caleidoscopica che contiene tutti i luoghi comuni di un malinteso sviluppo.

L’alta velocità ha distrutto il trasporto locale e ha reso impossibile viaggiare sotto gli 80 euro a biglietto in Italia. Uno sviluppo di «eccellenza», cioè per chi se lo può permettere. Questa è la foresta dei simboli in cui vivono ai piani alti del paese, dannosi tanto per l’ambiente (le grandi opere come la Tav) quanto per l’ecologia della mente (più che di eccellenza dall’estero l’Italia avrebbe bisogno di ricerca di base e di un sistema universitario libero da baroni e precarietà).Con questo viatico il Pd, e il governo sollecitato venerdì scorso da Venezia dal presidente del Consiglio Renzi, si avviano alla nuova – l’ennesima – riforma dell’università. Perché il gioco è noto: su un piatto hanno messo i 500 «cervelli eccellenti», oltre ai mille ricercatori di «tipo B» per tre anni da reclutare solo negli atenei «eccellenti» con il bollino Anvur e l’iniqua «Valutazione della qualità della ricerca» (Vqr), il sistema che divide gli atenei del Sud da quelli del Nord del paese. «è un reclutamento troppo esiguo – sostengono i dottorandi dell’Adi – siamo lontani dal piano straordinario da 10 mila ricercatori invocato da più parti. La Vqr userà la premialità in un’ottica punitiva e promuove meccanismi di finanziamento discriminatori».

Sull’altro piatto, Renzi continua la riforma Gelmini con gli stessi mezzi e con una retorica molto aggressiva. «Dobbiamo togliere l’Università dal perimetro della pubblica amministrazione perché non si governa l’università con gli stessi criteri con cui si fa appalto in una Asl o un comune – ha detto – È necessario scommettere su criteri dove il modello universitario possa essere Boston o università inglesi o in Oriente».

***La storia: E se Renzi assumesse 500 ricercatori per farli fuggire dall’Italia?***

Che cosa, in realtà, significhi “togliere università dal perimetro pubblica amministrazione” non è affatto chiaro, dato che l’università non è governata come una Asl o un comune, ma dall’autonomia degli organi eletti dalla comunità accademica e dai lavoratori e studenti che un governo come quello di Renzi si presuma conosca. L’illusione «americana» degli spaghetto-liberisti che dominano la scena universitaria è di respiro corto. Esiste una differenza sostanziale tra l’Italia e gli Usa. Il fondo dei nostri atenei ammonta a meno di 7 miliardi di euro. Solo il Mit di Boston riceve 2,5 miliardi di fondi pubblici. Quello che manca in Italia non sono gli investimenti dei privati, ma l’intervento statale come negli Usa.

In queste condizioni, uscire dal diritto amministrativo per gli atenei significa privatizzare il sistema universitario» sostiene Alberto Campailla, portavoce degli studenti di Link. Altro esempio: Harvard University ha un bilancio di 36,4 miliardi di dollari, quella di Bologna ha entrate da 750 milioni e uscite per 736. È come se Giannini avesse scoperto oggi la bicicletta mentre gli altri viaggiano in aereo, a proposito di alta velocità della conoscenza» ironizza Domenico Pantaleo, segretario della Flc-Cgil. Con una costante: la legge di stabilità non mette un euro sul diritto allo studio. «L’uscita dalla pubblica amministrazione completa il quadro – continua il sindacalista – Renzi non sa che il problema dell’università non è l’essere soggetto pubblico. Sono tutte le norme introdotte dal 2008 in poi e in particolare la riforma Gelmini ad aver ingessato gli atenei». «Il governo toglie l’Imu anche sulle grandi proprietà, contrae il diritto allo studio e destina risorse esigue a scuola e università. Tutt’altro che andare orgogliosi» sostengono Alberto Irone della Rete Studenti Medi e Jacopo Dionisio dell’Udu.

Nel paese che in dieci anni ha perso 100 mila studenti immatricolati, studia chi se lo può permettere. E chi fa ricerca? Deve pagare per lavorare, come i dottorati senza borsa. «Comprendiamo il legittimo orgoglio con cui il Ministro Giannini rivendica l’aumento del numero dei contratti di formazione specialistica dei medici, grazie a un incremento di 429 milioni di euro, dal 2016 al 2020, delle risorse destinate  – sostengono i dottorandi dell’Adi – Riteniamo tuttavia che tale orgoglio sarebbe potuto essere più pieno e giustificato se si fosse risolto anche l’annoso problema del dottorato senza borsa. Oltre 2.000 colleghi per ogni ciclo non percepiscono alcun sostegno economico per il loro percorso e sono costretti a pagare tasse che possono arrivare fino a 2.000 euro l’anno». Vuoi fare ricerca in Italia? Paga.